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Scontro tra i gestori dei bar ed il Fisco sugli accertamenti fondati su presunzioni. 3 esempi di casi in cui i gestori dei bar hanno vinto il processo contro l’Agenzia delle Entrate

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Scontro tra i gestori dei bar ed il Fisco sugli accertamenti fondati su presunzioni. 3 esempi di casi in cui i gestori dei bar hanno vinto il processo contro l’Agenzia delle Entrate

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Tra le varie attività di impresa l’apertura di un bar è quella che ha maggiori opportunità di successo, e proprio per questo, è ritenuta un investimento sicuro con un facile ritorno economico.

Tuttavia, aprire un bar che abbia successo e sia una fonte redditizia di guadagno è tutt’altro che semplice.

Innanzitutto, è bene sapere che l’attività di somministrazione al pubblico di bevande, anche alcoliche, e alimenti richiede il possesso di alcuni requisiti sia di ordine morale che professionale.

Infatti, per avviare l’attività, è indispensabile che l’imprenditore abbia svolto un corso professionale per la somministrazione alimenti e bevande ed abbia svolto per almeno due anni analoga attività nel settore oltre ad essere in possesso di un diploma di scuola secondaria con approfondimento di materie afferenti il commercio e la ristorazione.

Vi sono poi tutti gli oneri urbanistici ed i requisiti di ordine igienico sanitario (HACCP) nonché quelli in materia di sicurezza sul lavoro.

Ed infine, si tratta di un’attività che richiede una grande capacità organizzativa e di controllo dei costi, afferenti soprattutto le spese di locazione o acquisto del locale, materie prime, personale dipendente, ed altri costi fissi imprescindibili ed inevitabili.

Al di là della capacità di realizzare un business plan che non faccia acqua, è bene sapere che i baristi sono non di rado sotto l’occhio clinico degli accertatori fiscali.

Infatti, gli esercenti attività di somministrazione di bevande ed alimenti sono spesso sotto accusa per presunta mancata emissione di scontrini fiscali.

Stando ad alcune indagini di mercato, i bar sarebbero attività ad alto rischio di evasione fiscale. A volte si leggono addirittura numeri e statistiche (basate non si sa bene su cosa) come quella secondo cui oltre la metà degli incassi non sarebbe dichiarata.

Insomma se hai un bar non di rado si presume che vada a gonfie vele, perché gli incassi bassi non si spiegano (dicono alcuni) perché il bar stanno incassando poco (magari a causa della crisi o della concorrenza di altre attività), ma perché (ed è tutto da provare) incasserebbero in nero il doppio di quello dichiarato.

Ad accendere l’allarme sarebbero, soprattutto, le dichiarazioni dei redditi dei titolari di bar. In particolare, i sospetti ricadono sugli esercenti che dichiarano introiti bassi a fronte di significativi costi sostenuti, esempio relativi al magazzino ed al personale, che lascerebbero desumere un’attività di impresa di grandi dimensioni.

A queste conclusioni, però, si arriva in alcuni casi, a mio avviso, troppo facilmente e soprattutto partendo da dati derivanti dagli studi di settore, ora sostituiti dai c.d. Isa gli indici sintetici di affidabilità.

Questi ultimi, in particolare, rappresentano una sintesi del grado di affidabilità fiscale dei contribuenti basandosi su un metodo statistico-economico e tesi a verificare la normalità e la coerenza della gestione aziendale. A ciò si arriva comparando i dati relativi a più periodi di imposta.

Partendo da questi indici, infatti, si ritiene che molti bar, specie collocati territorialmente nel centro sud Italia, sottraggano introiti al fisco.

Una stangata per gli esercenti accusati di avere dei margini di ricarico anomali, di presentare delle dichiarazioni inattendibili e comunque incongruenti rispetto a quelle dei loro concorrenti.

Ecco allora che, partendo molto spesso dall’analisi di questi risultati gli accertatori arrivano a presumere i “reali” (secondo loro) ricavi dell’attività e soprattutto a determinare se il rapporto fra costi e ricavi è corretto o se risulta incongruo. Partendo da queste presunzioni, quindi, l’erario arriva a stabilire l’entità degli obblighi tributari sottratti al fisco ed a pretenderne il pagamento.

Capita, però, e non di rado che questi accertamenti diano luogo a contenziosi tributari. Di seguito 3 esempi di casi in cui il contribuente non si ha arreso, ha proposto ricorso, contestando gli avvisi, ed ha ottenuto sentenze che gli hanno dato ragione.

Corte di Cassazione, sentenza n. 24300 del 30 settembre 2019

Questa vicenda ha avuto origine da un avviso di accertamento notificato al titolare di un’attività di bar caffetteria la quale, secondo gli accertamenti, emetteva scontrini irregolari ed impiegava un lavoratore non in regola. L'avviso di accertamento inoltre considerava inattendibile la percentuale di ricarico dichiarata, che era la metà rispetto alla media di settore.

L’accusa, insomma, era di aver dichiarato dei ricavi inattendibili in relazione alla media merceologica, anche considerando la collocazione del bar che si trovava in una zona centrale e, per l’appunto, ai ricavi dichiarati che erano la metà di quanto risultante dagli studi di settore.

La Suprema Corte ha però accolto il ricorso del contribuente reputando insufficiente un ricarico dell'87% rispetto a quello medio applicato ed anche considerato che lo studio di settore evidenzia una forbice di ricarico considerata normale che va dal 74 al 224%.

A parere del collegio, pertanto, può considerarsi congruo un ricarico che, seppur di poco sopra il minimo, rientra nel raggio individuato dagli studi di settore riferiti alle attività di somministrazione di bevande ed alimenti, quindi ai bar.

Corte di Cassazione, sentenza n. 34568 del 30 dicembre 2019

Anche in questa pronuncia la Cassazione si è pronunciata sul ricorso promosso da due soci esercenti attività di rivendita di bevande (bar) attinti da due avvisi di accertamento ai fini Irpef, Iva ed Irap convinti che, in questo caso, si era in presenza di un accertamento errato in quanto fondato sugli studi di settore.

L’Amministrazione, d’altro canto, contestava che non si era in presenza di un accertamento fondato sugli studi di settore, quanto di un accertamento analitico-induttivo fondato su gravi indizi che dimostravano l'antieconomicità dell'attività svolta per diversi anni, e ciò in base ai dati forniti dai contribuenti. In particolare, i dati sospetti erano i ricavi esigui a fronte di notevoli costi sostenuti per pagare 13 dipendenti, rappresentativi di un’attività di grandi dimensioni. Oltre a ciò era emersa l'applicazione di una percentuale di ricarico inferiore a quella minima prevista dagli studi di settore.

La Cassazione ha anche questa volta dato ragione ai contribuenti ritenendo che la presunta antieconomicità dell’attività di gestione del bar risultava solo affermata e non dimostrata dagli elementi in possesso dall’Amministrazione.

Ciò in quanto, il ridotto margine di scostamento fra ricarico dichiarato e ricarico ritenuto congruo/normale non può far desumere l’inattendibilità della documentazione contabile della società, tale da legittimare l'accertamento analitico-induttivo.

Corte di Cassazione, ordinanza n. 16960 del 25 giugno 2019

Anche quest’ultimo caso ha preso avvio da un avviso di accertamento con cui l'Agenzia delle Entrate accertava maggiori ricavi, superiori a 50 mila euro, derivanti dall'esercizio dell'attività di bar e caffetteria i quali erano quindi stati sottratti ai fini IRPEF- IRAP ed IVA. L’accertamento era stato fondato in questo caso sul metodo analitico induttivo.

Il contribuente ha proposto ricorso in Cassazione atteso che l’Agenzia avrebbe fondato la ricostruzione dei ricavi basandosi solamente sulla produzione e vendita di caffè tralasciando la somministrazione, nell'esercizio dell’attività, di prodotti diversi dal caffè. Ciò avrebbe quindi portato ad un calcolo errato in quanto, omettendo di considerare la percentuale di ricarico per i prodotti diversi dal caffè, non avrebbe considerato l'effettiva consistenza del costo del venduto. Ed infatti, all’interno del bar vi erano anche prodotti che non generano ricavi diretti sui quali applicare percentuali di ricarico quali ad esempio orologi, pupazzi, accessori e gadget, ecc aventi un ricarico medio del 25%.

La Cassazione ha dato ragione al contribuente rinviando ad un nuovo esame la sentenza impugnata considerato che i giudici avevano limitato il loro esame solo riferendosi al settore relativo alla somministrazione del caffè, tralasciando l’esame di ricavi derivanti anche dalla vendita di altri prodotti.

 

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