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Avviso di accertamento immotivato. Confermato l’annullamento anche dalla Cassazione. Caso in cui si contestava l’utilizzo di fatture soggettivamente false. Accusa non motivata. Agenzia delle Entrate pagherà le spese.

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Estratto: “l'avviso di accertamento è immotivato perché enuncia genericamente l'inesistenza delle operazioni come derivanti da fatture per operazioni apparenti emesse a carico della società T., senza neppure individuare le fatture ritenute fittizie. In mancanza dell'allegazione degli elementi sintomatici potenzialmente capaci di consentire al cessionario o committente di rendersi conto o, almeno, di sospettare l'esistenza di irregolarità o di evasione e degli elementi indiziari idonee a giustificare la contestazione dell'Ufficio, non può gravare sul contribuente l'onere di provare, in applicazione di principi ordinari sull'onere della prova vigenti nel nostro ordinamento (art. 2697 c. c.), di non essere a conoscenza della inesistenza di fatture a monte".

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Corte di Cassazione, Sez. 5,

Ordinanza n. 23692 del 24 settembre del 2019

Rilevato che:

AD, nella qualità di legale rappresentante della J. S.R.L. impugnò, innanzi alla C.T.P. Agrigento, la cartella di pagamento e l'avviso di accertamento notificatigli dall'Ufficio a fronte di riprese per IRAP, IRPEG ed IVA relativamente all'anno di imposta 2001, emessi a seguito di p.v.c. con cui la G.d.F. aveva accertato l'indeducibilità, ad opera della J., di quote di ammortamento relative a beni strumentali riconducibili ad acquisti inesistenti, risultanti dai riscontri con le fatture per operazioni inesistenti emesse dalla società TS.R.L.;

che la CTP di Agrigento accolse il ricorso con sentenza n. 259/01/2007, la quale fu impugnata dall'AGENZIA DELLE ENTRATE innanzi alla C.T.R. della Sicilia; quest'ultima, con sentenza 7/24/11, depositata il 14.1.2011, rigettò l'appello stante la carenza di prova - incombente sull'amministrazione finanziaria - dell'inesistenza delle fatture, neppure indicate nel p.v.c. né, tantomeno, nell'avviso di accertamento;

che avverso tale decisione l'AGENZIA DELLE ENTRATE ha quindi proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi;

si è costituito con controricorso il D., il quale ha depositato, altresì, memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ. con allegata documentazione;

Considerato che con il primo motivo l'AGENZIA lamenta (in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) la violazione e falsa applicazione dell'art. 9 della I. n. 289 del 2002, dell'art. 111 Cost., dell'art. 132 cod. proc. civ., dell'art. 118 disp. att. cod. proc. civ., nonché dell'art. 1 comma 2, dell'art. 36, comma 2 nn. 2 e 4, e degli artt. 53 e 54 del d.lgs. n. 546 del 1992, censurando la pronuncia impugnata per aver la C.T.R. respinto - implicitamente - il motivo di gravame concernente la dedotta violazione dell'art. 9 cit., senza argomentare e senza esplicitare il percorso motivazionale che ha convinto i giudici della infondatezza della censura; che, in subordine, con il secondo motivo, parte ricorrente denuncia (in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.) il difetto assoluto di motivazione della gravata decisione, avuto riguardo alla censura, svolta in secondo grado, relativamente agli effetti del condono;

che, in via ulteriormente subordinata, con il terzo motivo l'AGENZIA lamenta (in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.), la violazione e falsa applicazione dell'art. 9 cit., censurando la pronuncia impugnata per essersi discostata dal principio di diritto, affermato da codesta Corte in casi analoghi, secondo il quale è precluso all'Agenzia delle Entrate il potere di accertamento delle imposte evase a fronte dell'adesione del contribuente ai sensi degli artt. 7, 9, 15 e 16 della I. n. 289 del 2002, ma non quello di provvedere alla verifica in merito alla spettanza dei creditii vantati risultanti dalle dichiarazioni. che con il quarto motivo la ricorrente si duole (in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) della violazione e falsa applicazione di legge e, in specie, degli artt. 19, 54 e 55 del d.P.R. n. 633 del 1972, degli artt. 2697, 2727, 2729 cod. civ. e dell'art. 115 cod. proc. civ., nonché (in relazione all'art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.) dell'art. 112 cod. proc. civ., per avere la CTR di Palermo erroneamente ritenuto non assolto l'onere dell'ufficio di provare che le operazioni oggetto delle fatture erano in realtà inesistenti, avendo così violato il principi per cui la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni deve essere fornita dal contribuente; che con il quinto motivo, infine, parte ricorrente lamenta (in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.) l'insufficienza ed illogicità della motivazione su un fatto controverso e decisivo, dolendosi dell'affermazione con cui i giudici di secondo grado hanno ritenuto carente la documentazione comprovante l'inesistenza delle fatture, trascurando, al contrario, gli elementi presuntivi desumibili dall'inesistenza delle fatture dei fornitori della società T., circostanza mai contestata dalla società J., inesistenza che - in materia di appalto - si riverbera sul committente, il quale inserisce nella sua contabilità le fatture ricevute dai "falsi" fornitori; Rilevato che con la memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ. la difesa del controricorrente ha depositato copia della sentenza 13.6.2018, n. 15462, con cui questa Corte (rigettando il ricorso proposto dal'Ufficio) ha definito il giudizio vertente tra la J.M. S.R.L. e l'AGENZIA DELLE ENTRATE, avente ad oggetto i medesimi atti impugnati con l'originario ricorso proposto dal D. ed alla base dell'odierno giudizio di legittimità: tale circostanza emerge dalla lettura e dal raffronto tra le sentenze nn. 256/1/2007 e 259/1/2007 della C.T.P. di Agrigento, nonché nn. 6/24/11 e 7/24/11 della C.T.R. della Sicilia (tutte allegate alla memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ. di parte controricorrente), queste ultime sottese, rispettivamente, al procedimento definito con la sentenza n. 15462/2018 ed al presente, oltre che dallo stesso ricorso dell'AGENZIA (cfr. p. 5, primo cpv.);

che tale documentazione è certamente producibile unitamente alla memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ. depositata dalla difesa del D. (e, dunque, delibabile dal Collegio), siccome atta a comprovare la formazione di un giudicato esterno maturato non solo dopo la conclusione del giudizio di merito, ma anche successivamente al deposito del ricorso introduttivo dell'odierno giudizio di legittimità (Cass., Sez. 5, 18.10.2017, n. 24531, Rv. 645913-01);

che dalla lettura di detta documentazione emerge che (a) gli atti impugnati dal D I. con l'originario ricorso introduttivo del presente giudizio sono già stati oggetto di precedente annullamento nel diverso giudizio proposto dalla società J. (di cui si è dato conto poc'anzi) e (b) che su tale annullamento è calato - in virtù della citata sentenza n. 15462/2018 di questa Corte - il giudicato, opponibile all'Amministrazione finanziaria, che è stata parte in causa nel relativo processo ed ha ivi esercitato, senza limitazioni di sorta, il diritto di difesa (arg. da Cass., Sez. U, 4.6.2008, n. 14815, Rv. 603330-01 e, più recentemente, Cass., Sez. 5, 28.2.2018, n. 4580, Rv. 647212-01 nonché Cass., Sez. 6-5, 24.11.2015, n. 23899, Rv. 637506-01);

che, in ogni caso, i primi tre motivi dell'odierno ricorso - illustrati in precedenza e che, stante l'identità di questioni agli stessi sottese, sono suscettibili di trattazione congiunta - sono inammissibili, per la novità delle questioni ivi affrontante, quale conseguenza del difetto di specificità (cfr. l'art. 366, comma 1, n. 6, cod. proc. civ.) da cui le censure sono affette: nella decisione impugnata, infatti, le questioni proposte con tali motivi non risultano in alcun modo proposte né, tampoco, esaminate dal giudice di appello.

Sennonché, rappresenta principio consolidato di questa Corte quello in virtù del quale il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame deve compiutamente riportarli nella loro integralità, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni alla stessa sottoposte non siano "nuove" e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all'esame dei fascicoli di ufficio o di parte (cfr. Cass. n. 17049/2015; Cass. n. 21083/2014): i motivi del ricorso devono infatti investire, a pena d'inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio d'appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi dì contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d'ufficio (cfr. Cass., n. 194/2002; Cass., n. 17041/2013; Cass., n. 25319/2017; Cass., n. 2033/2017; Cass., n. 907/2018);

che anche il quarto ed il quinto motivo - anch'essi illustrati in precedenza e suscettibili di trattazione congiunta, stante l'identità delle questioni agli stessi sottese - sono infondati.

Condividendo il Collegio quanto già osservato da questa Corte nella sentenza 13.6.2018, n. 15462, deve ribadirsi che "in tema di contenzioso tributario, l'Amministrazione finanziaria, ove contesti al cessionario/committente l'assenza di buona fede in caso di irregolarità fiscali o di evasione, ha l'onere di provare ed allegare gli elementi probatori su cui si fondi la contestazione, tra i quali possono rilevare, in via indiziaria, quali elementi sintomatici della mancata esecuzione della prestazione dal fatturante, l'assenza della minima dotazione personale e strumentale, l'immediatezza dei rapporti (cedente/prestatore fatturante interposto e cessionario/committente), una conclamata inidoneità allo svolgimento dell'attività economica e la non corrispondenza tra i cedenti e la società coinvolta nell'operazione" (Cass. n. 30148/2017; n967 del 20/01/2016; n. 428/2015; n. 25775/2014; n.5912 del 2010).

In particolare, sul punto la Corte europea ha più volte ribadito che se — tenuto conto di evasioni o irregolarità commesse dall'emittente della fattura o, comunque, a monte dell'operazione dedotta a fondamento del diritto alla detrazione - tale operazione è considerata come non effettivamente realizzata, l'Amministrazione finanziaria deve dimostrare, alla luce di elementi oggettivi ed alla stregua dei principi sull'onere della prova vigenti nello Stato membro, senza, peraltro, esigere dal destinatario della fattura verifiche alle quali non è tenuto, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta operazione si inseriva nel quadro di un'evasione dell'imposta sul valore aggiunto (Corte giustizia 06/12/2012; 31/01/2013; Corte giustizia 22/10/2015, C277/14). Ciò premesso, non può revocarsi in dubbio che l'Amministrazione possa fornire tale prova anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per l'IVA, l'art. 54, comma 2, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nell'art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917: cfr. Cass. 21953/07; Cass. n. 9108/12; n. 15741/12, in motivazione; n. 23560/12; n. 27718/13; n. 20059/2014; nello stesso senso Corte giustizia 06/07/2006, C-439/04; Id. 21/02/2006, C-255/02; Id. 21/06/2012, C-80/11; Id. 06/12/2012, C-285/11; Id. 31/01/2013, C-642/11).

Sulla scorta della pronuncia C-277/14, questa Corte ha affermato che "continua a prospettarsi un obbligo di verifica in capo al cessionario/committente a fronte di indizi che gli consentano di sospettare l'esistenza appunto di irregolarità o di evasione"; indizi, che devono essere allegati e provati dall'amministrazione in base ad elementi oggettivi, anche presuntivi (tra varie, Cass. n. 967/2016 cit.; n. 20059/2014; n. 15044/2014).

Sotto questo aspetto, il quadro probatorio indiziario rivelatore della mala fede del committente può essere costituito dai seguenti elementi: a) la circostanza che la prestazione non sia stata effettivamente resa dal fatturante, perché sfornito della, sia pur minima, dotazione personale e strumentale adeguata alla sua esecuzione (cfr. Cass. n. 5912/2010, Corte giustizia 13/02/2014, causa C18/13); b) l'immediatezza dei rapporti (cedente/prestatore fatturante interposto e cessionario/committente), a fronte di una conclamata inidoneità allo svolgimento dell'attività economica e ad una non corrispondenza tra i cedenti e la società coinvolta nell'operazione (cfr. Cass. n. 6229/2013; n. 24426/2013; n. 25778/2014); c) l'instaurazione di rapporti diretti tra il cedente/prestatore effettivo interponente ed il cessionario/committente (Cass. n. 30148/2017). Nella presente fattispecie, l'avviso di accertamento è immotivato perché enuncia genericamente l'inesistenza delle operazioni come derivanti da fatture per operazioni apparenti emesse a carico della società T., senza neppure individuare le fatture ritenute fittizie. In mancanza dell'allegazione degli elementi sintomatici potenzialmente capaci di consentire al cessionario o committente di rendersi conto o, almeno, di sospettare l'esistenza di irregolarità o di evasione e degli elementi indiziari idonee a giustificare la contestazione dell'Ufficio, non può gravare sul contribuente l'onere di provare, in applicazione di principi ordinari sull'onere della prova vigenti nel nostro ordinamento (art. 2697 c. c.), di non essere a conoscenza della inesistenza di fatture a monte";

Ritenuto, pertanto, che il ricorso vada rigettato, con condanna dell'AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore p.t., al pagamento, in favore di AD, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Per l'effetto, condanna l'AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore p.t., al pagamento, in favore di AD, delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi € 10.000,00 (diecimila/00) per compenso professionale, oltre al 15 % su tale importo, per rimborso forfetario spese generali, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Civile Tributaria, il 30.05.2019.

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