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Massima: “Ai fini della rettifica del valore venale di un bene, i listini OMI sono uno strumento di ausilio che rappresentano meri elementi presuntivi semplici e, come tali, non idonei a fondare un accertamento di maggior valore, se non corroborati da altri elementi di prova che tengano in considerazione le specificità concrete del bene compravenduto”.

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Nel presente articolo analizziamo un caso giurisprudenziale sottoposto alla Commissione Tributaria Provinciale di Pavia, la quale ha annullato l'avviso di accertamento emesso dall'Agenzia delle Entrate a seguito di verifica fiscale a carico di un veterinario, con cui si intimava il pagamento di ingenti somme sulla base non solo di ragionamenti del tutto inferenziali e presuntivi, ma finanche richiamando un dato errato.

Tuttavia, la prospettiva sarà differente rispetto al consueto esame della sentenza.

Infatti, procederemo, come in precedenti occasioni, ad esaminare la fattispecie, non dalla prospettiva del corpo letterale della sentenza (di cui citiamo gli estremi in calce per chi voglia analizzarne il contenuto), ma dalla prospettiva difensiva, analizzando le argomentazioni sviluppate nella memoria / arringa conclusiva da noi predisposta.

Si nota, infine, che nel caso di specie la stessa Agenzia delle Entrate, riconoscendo implicitamente la bontà della pronuncia, ha ritenuto di non appellare la sentenza di primo grado, che è divenuta definitiva senza necessità di difendere gli interessi dei contribuenti anche in appello.

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Estratto: “in punto di diritto, si osserva, in fatto, che dalla lettura dell'avviso di liquidazione emerge che l'Ufficio indica solo: il numero dell'atto «sentenza civile n. XXX», la controparte «xxx spa» e una serie di tre codici, 109T,806T, 964t, con a fianco la somma da corrispondere ad ogni titolo. Non viene indicata la base impositiva, né l'aliquota applicata per l'imposta. Non vengono neppure indicati gli articoli di riferimento del dpr 131/86. Ciò basta per rigettare l'appello” (dell’Agenzia delle Entrate - NDR)”.

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Massima: Nell'ambito degli accertamenti per fatture soggettivamente inesistenti, laddove il soggetto accertato applichi il reverse charge, l'Ufficio non può invocare, ai fini della ripresa a tassazione dell'IVA, l'art 21, comma 7, del d.P.R. 633/1972, secondo il quale, se viene emessa fattura per operazioni inesistenti, "l'imposta è dovuta per l'intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni in fattura". Nel caso dell'applicazione del meccanismo dell'inversione contabile, infatti, nessuna imposta risulta indicata nella fattura”.

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Nel presente articolo analizziamo un caso giurisprudenziale sottoposto alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano, la quale ha annullato gli avvisi di accertamento emessi dall'Agenzia delle Entrate a seguito di verifica fiscale a carico di un’attività di ristorazione. 

Avvisi formati con metodologia induttiva (ossia desumendo i ricavi dall’entità degli acquisti effettuati a monte). 

Tuttavia, la prospettiva sarà differente rispetto al consueto esame della sentenza. 

Infatti, procederemo ad esaminare la fattispecie, non dalla prospettiva del corpo letterale della sentenza (di cui citiamo gli estremi in calce per chi voglia analizzarne il contenuto), ma dalla prospettiva dei motivi di ricorso. 

Si nota, infine, che nel caso di specie la stessa Agenzia delle Entrate ha ritenuto di non appellare la sentenza di primo grado, che è divenuta definitiva senza necessità di difendere gli interessi dei contribuenti anche in appello. 

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In questo articolo, esaminiamo, in luogo di una sentenza, le argomentazioni processuali espresse in un caso di:

- Vizio del procedimento;

- Utilizzo di procedura automatizzazione di liquidazione dell'imposta fuori dai casi consentiti;

- Errato disconoscimento di crediti IVA;

- Violazione e falsa applicazione dell'art. 54 del D.P.R. n. 633/1972;

Argomentazioni processuali che, nel caso in discussione, hanno permesso di ottenere l'annullamento dell'atto in via di autotutela da parte dell’Agenzia delle Entrate prima della fine del processo, senza necessità, quindi, di giungere alla sentenza di primo grado.

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Raccolta di sentenze favorevoli alle ragioni del contribuente in casi in cui veniva contestato l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti

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Estratto: “l’Ufficio indica solo: il numero dell’atto «sentenza civile n. 000001398/2009», la controparte «xxx spa» e una serie di tre codici, 109T, 806T, 964t, con a fianco la somma da corrispondere ad ogni titolo. Non viene indicata la base impositiva, né l’aliquota applicata per l’imposta. Non vengono neppure indicati gli articoli di riferimento del dpr 131/86. Ciò basta per rigettare l’appello. (…) La Commissione rigetta l’appello dell’Ufficio e condanna l’Ufficio al pagamento delle spese di lite che si liquidano in euro 7.400,00 (settemilaquattrocento) oltre accessori di legge”.

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Estratto: “Appare preliminare affrontare la fondatezza della sollevata prescrizione del credito azionato dall'Ufficio. Nel caso in esame devono essere applicati i seguenti principi di diritto, applicabili mutatis mutandis, al di là della fattispecie di riferimento , secondo i quali la scadenza del termine - pacificamente perentorio, nel caso di specie - per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui all'art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 46 del 1999, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l'effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche la cd. "conversione" del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale, secondo l'art. 3, commi 9 e 10, della 1. n. 335 del 1995) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell'art. 2953 c.c.” 

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La Commissione Tributaria Regionale di Milano, con la sentenza n. 477/2017, ha annullato un avviso di accertamento emesso nei confronti di un contribuente che svolgeva sia l’attività di elettricista che di gestione di un bar.

Sulla base di un accertamento induttivo, l’Agenzia delle Entrate aveva contestato che i ricavi dichiarati non fossero in linea con gli studi di settore.

Il contribuente lamentava l’illegittimità dell’accertamento poiché egli si era adeguato allo studio di settore, per tale motivo, all’Ufficio era preclusa la possibilità di eseguire un accertamento presuntivo, così come previsto dall’art. 10, comma 4bis, L. n. 146/1998.

I Giudici hanno condiviso le doglianze proposte nell’appello annullando totalmente l’avviso di accertamento notificato, ed il contribuente non sarà più tenuto al pagamento.

Massima: “È illegittimo l’avviso di accertamento quando il contribuente provi di essersi adeguato allo studio di settore e l’Agenzia non abbia contestato l’incoerenza. In tale situazione l’art. 10, comma 4bis, della l. 146/1998 preclude la possibilità di accertamento presuntivo atteso che i redditi dichiarati allineati agli studi di settore si presumono congrui per effetto di legge. Il valore di legge del citato art. 10 rende privo di efficacia il su indicato decreto ministeriale. Nel caso di lite, il contribuente svolgeva attività promiscua (gestione di bar e attività di elettricista) sicché l’ente accertatore si era uniformato alle previsioni del d.m. 11/02/2008 e alle istruzioni della circolare n. 31 del 2008 in considerazione della duplice attività svolta dal contribuente. Tuttavia la Commissione ha ritenuto inapplicabile il citato decreto ministeriale rispetto alla previsione della legge contenuta nel richiamato art. 10, poiché nello stabilire criteri nuovi con la pretesa di generale applicabilità nei casi come quello in esame, ha da una parte innovato rispetto alla disciplina legislativa introducendo casistiche non previste dalla legge con l'introduzione di scaglioni di reddito in percentuale (nella specie del 30% dell'ammontare totale dei ricavi dichiarati) al di sopra dei quali non opererebbe lo studio di settore, con ulteriore introduzione della regola (art. 2 del citato decreto) non applicabile ai soggetti che svolgano due o più attività”.

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