Estratto: “Questa Corte, in controversie similari, ha avuto modo di affermare il principio secondo il quale «Nel processo tributario, il divieto di prova testimoniale posto dall'art. 7 del d. lgs. n. 546 del 1992 si riferisce alla prova testimoniale da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l'impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell'amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento e che, proprio perché assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorre a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice» (cfr. Cass. sez. 5, 7 aprile 2017, n. 9080; Cass. sez. 5, 5 aprile 2013, n. 8639). Ciò, analogamente, vale per il contribuente (cfr. Cass. sez. 5, 21 gennaio 2015, n. 960), il quale, nella fattispecie in esame - per resistere ad accertamento di maggiori ricavi e dunque di maggior reddito d'impresa per l'anno di riferimento, nascente da accordo intervenuto tra l'Amministrazione finanziaria ed il Consorzio XXX, del quale il XXX, esercente impresa di servizi funebri, è consorziato, in virtù del quale l'Amministrazione aveva stimato induttivamente un prezzo medio ponderato di € 2500,00 a funerale - aveva prodotto, già in sede di accertamento con adesione, quarantadue dichiarazioni di terzi che confermavano i costi inferiori fatturati riguardo alle esequie alle quali le suddette fatture si riferivano.
L'attribuzione di valenza indiziaria delle dichiarazioni di terzi anche in favore del contribuente è peraltro funzionale al dispiegarsi del giusto processo ex art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva dalla 1. 4 agosto 1955, n. 848, per quanto attiene all'irrogazione nel processo tributario di sanzioni assimilabili a quelle penali (cfr. Cass. sez. 6- 5 ord. 28 aprile, 2015, n. 8606 e la giurisprudenza della Corte EDU ivi richiamata, tra cui Corte EDU 23 novembre 2006, Jussilla contro Finlandia, e 12 luglio 2001, Ferrazzini contro Italia)”.
La Commissione Tributaria Regionale di Milano, con la sentenza n. 477/2017, ha annullato un avviso di accertamento emesso nei confronti di un contribuente che svolgeva sia l’attività di elettricista che di gestione di un bar.
Sulla base di un accertamento induttivo, l’Agenzia delle Entrate aveva contestato che i ricavi dichiarati non fossero in linea con gli studi di settore.
Il contribuente lamentava l’illegittimità dell’accertamento poiché egli si era adeguato allo studio di settore, per tale motivo, all’Ufficio era preclusa la possibilità di eseguire un accertamento presuntivo, così come previsto dall’art. 10, comma 4bis, L. n. 146/1998.
I Giudici hanno condiviso le doglianze proposte nell’appello annullando totalmente l’avviso di accertamento notificato, ed il contribuente non sarà più tenuto al pagamento.
Massima: “È illegittimo l’avviso di accertamento quando il contribuente provi di essersi adeguato allo studio di settore e l’Agenzia non abbia contestato l’incoerenza. In tale situazione l’art. 10, comma 4bis, della l. 146/1998 preclude la possibilità di accertamento presuntivo atteso che i redditi dichiarati allineati agli studi di settore si presumono congrui per effetto di legge. Il valore di legge del citato art. 10 rende privo di efficacia il su indicato decreto ministeriale. Nel caso di lite, il contribuente svolgeva attività promiscua (gestione di bar e attività di elettricista) sicché l’ente accertatore si era uniformato alle previsioni del d.m. 11/02/2008 e alle istruzioni della circolare n. 31 del 2008 in considerazione della duplice attività svolta dal contribuente. Tuttavia la Commissione ha ritenuto inapplicabile il citato decreto ministeriale rispetto alla previsione della legge contenuta nel richiamato art. 10, poiché nello stabilire criteri nuovi con la pretesa di generale applicabilità nei casi come quello in esame, ha da una parte innovato rispetto alla disciplina legislativa introducendo casistiche non previste dalla legge con l'introduzione di scaglioni di reddito in percentuale (nella specie del 30% dell'ammontare totale dei ricavi dichiarati) al di sopra dei quali non opererebbe lo studio di settore, con ulteriore introduzione della regola (art. 2 del citato decreto) non applicabile ai soggetti che svolgano due o più attività”.
Con la sentenza n. 769 n. 2017 i Giudici della Commissione Tributaria Regionale di Milano hanno rigettato l'appello dell'Agenzia delle Entrate, già soccombente in primo grado, che aveva presunto maggiori redditi in capo ad un negozio di abbigliamento.
Il negozio, prossimo alla chiusura, nell'anno in discussione aveva già tuttavia iniziato a liquidare la merce con le vendite promozionali. Dunque non si trovava in un periodo di normale svolgimento dell'attività.
Al riguardo l'articolo 10 della Legge 146/1998 esclude l'applicabilità degli studi di settore nei confronti di contribuenti che si trovino in un periodo di non normale svolgimento dell'attività.
I giudici di secondo grado hanno dunque confermato l'annullamento integrale dell'avviso di accertamento emesso dall'Agenzia delle Entrate, ed il contribuente non sarà più tenuto al pagamento.
La Commissione Tributaria Provinciale di Milano ha annullato un avviso di accertamento emesso nei confronti di una società di catering che aveva portato in deduzione costi relativi a servizi resi dalla propria capogruppo.
In particolare, a parere dell’Agenzia delle Entrate, i costi sostenuti dalla società italiana, a fronte di servizi resi dalla capogruppo, non erano sufficientemente documentati.
Eppure, a seguito della redazione del PVC, la ricorrente aveva offerto maggiori delucidazioni in ordine ai costi sostenuti, e ciò all’interno delle osservazioni presentate ai sensi dell’art. 12, comma 7, della L. n. 212/2000.
La Commissione Tributaria ha ribadito che le osservazioni devono essere valutate all’interno dell’avviso, e se tale attività è omessa l’avviso stesso è nullo.
D’altronde non avrebbe senso riconoscere al contribuente il diritto di presentare le osservazioni se l’Ufficio potesse non esaminarle e redigere l’avviso negli stessi termini in cui l’avrebbe redatto se le stesse non fossero mai state depositate.
Tale vizio formale ha dunque giustificato la dichiarazione di annullamento dell’avviso.
La Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 28700 del 2017, ha accolto il ricorso di un ristoratore avverso la sentenza dei Giudici di merito.
Questi ultimi, confermando la sentenza di primo grado, avevano ritenuto legittimo l'avviso di accertamento formato con metodo analitico-induttivo, in seguito a ispezioni presso i locali del ristorante-pizzeria.
Di diverso avviso invece la Corte di Cassazione che ha annullato l'avviso ritenendo condivisibili le doglianze del ristoratore che lamentava l'irregolarità dell'avviso di accertamento emesso prima dello scadere del termine dei 60 giorni dalla notifica del PVC.
In altri termini, l'Amministrazione avrebbe dovuto aspettare prima di notificare l'avviso di accertamento, e dare per l'effetto un termine congruo al contribuente per replicare.
La richiesta di pagamento è stata annullata per aver l'Agenzia delle Entrate negato al contribuente questo diritto inviolabile, e dunque il ristoratore non dovrà pagare a prescindere dell'esistenza di eventuali irregolarità.
La Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 13330 del 2017, ha rigettato il ricorso per cassazione dell'Agenzia delle Entrate, che si lamentava dell'annullamento da parte dei Giudici di merito degli avvisi di accertamento emessi nei confronti di una società edile, a cui era stato contestato l'utilizzo di fatture a fronte di operazioni inesistenti.
Le indagini condotte dall'Agenzia delle Entrate avrebbero rilevato una discrepanza tra gli importi delle fatture e i movimenti in uscita sul conto corrente bancario della società.
In giudizio il contribuente aveva tuttavia offerto la prova dell'effettività delle prestazioni ed aveva altresì compiutamente delineato le modalità di pagamento delle prestazioni. In particolare, parte dei compensi erano stati corrisposti in contanti, ragion per cui i movimenti bancari riportavano un importo inferiore rispetto a quello delle fatture.
Dopo le corti di merito anche la Corte di Cassazione dà ragione al contribuente, confermando l'annullamento degli avvisi.
La CTR della Lombardia, con la pronuncia in esame, ha annullato gli avvisi emessi dall'Agenzia delle Entrate sulla base di un rilievo con cui si contestava l'oggettiva inesistenza delle operazioni indicate in fattura, in quanto emessi tardivamente (successivamente rispetto al termine di decadenza di cui all'art. 43 n. 600 del 1973).
Ad avviso dell'Agenzia delle Entrate la stessa sarebbe stato ancora in tempo, in quanto, avendo ella presentato la denuncia penale, i termini dovevano intendersi raddoppiati.
Di contrario avviso la CTR della Lombardia, che ha annullato gli avvisi dato che con la L. 208/2015 lo stesso Legislatore ha specificato che, ai fini del raddoppio dei termini per l'emissione dell'avviso, la stessa denuncia deve essere tempestiva, deve cioè rispettare i termini decadenziali ordinari.
Massima: “L'art. 1, commi 130, 131 e 132, legge 208/2015 ha implicitamente abrogato il regime transitorio dell'art. 2, comma 3, del d.lgs. 128/2015 e la sentenza della Corte Costituzionale n. 247/2011 non è vincolante sia perché di rigetto sia perché intervenuta prima delle evoluzioni normative sopra citate. Ne discende che, ai fini della legittima applicazione del raddoppio dei termini per l'accertamento, la presentazione della denuncia debba avvenire entro i termini decadenziali ordinari dell'accertamento stesso. Una diversa e contraria conclusione comporterebbe la violazione del principio di certezza dei rapporti giuridici e dell'art. 24 della Costituzione, sottoponendo il contribuente ad un procedimento sanzionatorio attivabile "sine die" (Contra Cass. n. 16728/2016)”.
Estratto: “l’acquirente dei beni può dedurre i costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti anche nell’ipotesi in cui sia consapevole del loro carattere fraudolento, salvi i limiti derivanti dai principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità”.
Nel caso esaminato dalla sentenza in discussione, la Commissione Tributaria Regionale ha ritenuto doveroso annullare in toto un avviso di accertamento con cui si contestava la registrazione nella contabilità sociale di una fattura ritenuta emessa a fronte di un’operazione oggettivamente inesistente.
In sede penale, il PM aveva richiesto l’archiviazione, non ritenendo potesse essere provata la fittizietà dell’operazione. Circostanza che i Giudici Tributari non hanno mancato di considerare.
Se infatti è vero che i due processi sono separati, l’archiviazione penale può ben costituire elemento di valutazione da parte delle Commissioni Tributarie.
In definitiva, la CTR ha ritenuto l’atto meritevole di integrale annullamento, e qualsiasi pretesa di pagamento è venuta meno.
Estratto: "L'Amministrazione finanziaria è tenuta a dimostrare i presupposti della responsabilità dei soci nei confronti dei quali agisce, anche nei limiti di cui all'art. 2495 c.c. e, cioè che, in concreto, vi sia stata distribuzione dell'attivo e che una quota di quest'ultimo sia stata effettivamente riscossa".
All'interno delle pronunce giurisprudenziali oggi commentate si riconosce che, ai fini dell'annullamento di un accertamento redditometrico, è sufficiente che il contribuente provi la precedente sussistenza di disponibilità rispetto al periodo d'imposta mentre non è necessario che lo stesso dimostri l'utilizzo esattamente di tali disponibilità per sostenere le spese alla base dell'accertamento redditometrico.
Nella fattispecie esaminata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia era stato contestato ad una serie di contribuenti l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, con ogni conseguente riflesso in termini impositivi e sanzionatori.
La ragione che ha determinato l’annullamento degli avvisi in esito al procedimento di appello è, in tale ipotesi, unicamente formale: era invalida, a monte, la delega del funzionario firmatario. Inoltre le ulteriori deleghe rivendicate dall'Erario non erano state depositate in giudizio da parte dell’Agenzia delle Entrate (gravata di tale onere).
Pertanto, la fattispecie in esame costituisce un chiaro esempio dei casi in cui l’invalidità nel procedimento di formazione di un atto, da un lato, ed il contegno processuale dell'Agenzia delle Entrate, dall’altro lato, possano giustificare l’annullamento di un avviso di accertamento.
Il filone giurisprudenziale che sarà esaminato all'interno di questo breve commento riconosce che l’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente si applica anche ai costi sostenuti per fideiussioni richieste per ottenere i rimborsi IVA in via accelerata. Il contribuente, specificano le pronunce in esame, anche in tal caso ha il diritto di ottenere il rimborso dei costi.
Nel caso in discussione un costruttore veniva sottoposto a verifica fiscale in considerazione del fatto che i suoi ricavi si mostravano inferiori rispetto a quanto risultante dallo studio di settore. Ricostruito un nuovo reddito da ascrivere al costruttore, l’Ufficio demandava il pagamento di maggiori imposte sulla base di tale ricostruzione, oltre a sanzioni ed interessi.
Nondimeno tale ricostruzione era racchiusa in un prospetto contenente i dati contabili ed extracontabili che l’Agenzia aveva ritenuto di utilizzare per rideterminare il reddito del contribuente.
Orbene, prima la Commissione Tributaria Provinciale e dappoi la Commissione Tributaria Regionale hanno ritenuto necessaria, a pena di nullità dell’avviso, l’allegazione di tale prospetto, e l’atto è stato dichiarato nullo. Il costruttore non dovrà corrispondere le somme.