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Vizio motivazionale per omesso esame delle ragioni allegate dalla difesa della società contribuente. La Cassazione dà ragione alla contribuente.

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Estratto: a fronte della difesa e delle ragioni allegate dalla contribuente, la motivazione della sentenza sorvola su fatti che assumevano invece valenza decisiva ai fini della decisione -ad es. la circostanza che i soci fossero gli ex dipendenti di una società fallita, riuniti nella forma cooperativa a mutualità prevalente-. Ma soprattutto non tiene conto del principio, ormai consolidato, secondo cui, a fronte delle allegazioni e delle ragioni esposte dal contribuente a giustificazione dello scostamento del reddito dallo studio di settore applicato, sorge l'onere della Agenzia di dimostrare l'applicabilità in concreto dello "standard" prescelto, nonché di esporre le ragioni per le quali non sono state ritenute attendibili le allegazioni del contribuente. La sentenza impugnata non fa corretta applicazione dei suddetti principi, non avvedendosi che in tal modo manca la presenza di indizi gravi e concordanti, idonei a provare presuntivamente il maggior reddito contestato dalla Agenzia alla società”.

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Corte di Cassazione, Sez. 5,

Ordinanza n. 5164 del 26 febbraio 2020

Rilevato che:

La S. soc. coop. ., in persona del legale rappresentante p.t., ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 352/12/12, depositata il 4/06/2012 dalla Commissione Tributaria Regionale della Campania, sez. staccata di Salerno; ha rappresentato che a seguito della notifica dell'avviso di accertamento relativo all'anno d'imposta 2004 -con il quale l'Agenzia delle Entrate, rilevando lo scostamento dei ricavi dichiarati dalla contribuente rispetto al cluster applicato degli studi di settore (pari a circa euro 50.746,00), aveva provveduto a rideterminare il reddito ai fini Ires, Irap ed Iva- aveva promosso il giudizio dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Avellino, che con sentenza n. 422/01/2010 aveva accolto le doglianze. la sentenza era però impugnata dalla Agenzia dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, che in riforma della decisione di primo grado aveva accolto l'appello.

La società censura la sentenza con quattro motivi: con il primo per violazione degli artt. 111 Cost., 6 CEDU, 158 c.p.c., 51 co. 1 n. 4 c.p.c., 6 e 8 co. 3 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all'art. 360 co. 1 n. 4 c.p.c., denunciando la nullità della sentenza per vizio nella costituzione del giudice d'appello; con il secondo per violazione degli artt. 53 co. 1, d.lgs. n. 546 del 1992, 329 e 342 c.p.c., in relazione all'art. 360 co. 1 n. 4 c.p.c., per nullità della sentenza perché non era stata dichiarata l'inammissibilità dell'appello per carenza di specificità dei motivi di impugnazione;

con il terzo per omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c., per non aver esaminato le ragioni allegate dal contribuente a sostegno della sua difesa; con il quarto per violazione o falsa applicazione dell'art. 62 sexies del d.I. n. 331 del 1993, conv. in I. n. 427 del 1993, in relazione all'art. 360 co. 1, n. 3 c.p.c., per aver sostenuto la correttezza dell'accertamento sulle mere risultanze degli studi di settore.

Ha pertanto chiesto la cassazione della sentenza. Si è costituita l'Agenzia, contestando le avverse difese e chiedendo il rigetto del ricorso.

Considerato che:

Il primo motivo di ricorso, con il quale si eccepisce il vizio di costituzione del giudice in appello, per aver già conosciuto della causa nel precedente grado, così

lamentandosi la nullità della sentenza, non trova fondamento.

Questa Corte ha affermato che anche a seguito della modifica dell'art. 111 Cost., introdotta dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, in difetto di ricusazione la violazione dell'obbligo di astenersi da parte del giudice che abbia già conosciuto della causa in altro grado del processo, ai sensi dell'art. 51, co. 1, n. 4 c.p.c. non è deducibile in sede di impugnazione come motivo di nullità della sentenza da lui emessa, giacché la norma costituzionale, nel fissare i principi fondamentali del giusto processo -tra i quali l'imparzialità e terzietà del giudice- ha demandato al legislatore ordinario di dettarne la disciplina e, in considerazione della peculiarità del processo civile, fondato sull'impulso paritario delle parti, non è arbitraria la scelta del legislatore di garantire nell'ipotesi anzidetta l'imparzialità e terzietà del giudice tramite gli istituti dell'astensione e della ricusazione. Né detti istituti, cui si aggiunge quello dell'impugnazione della decisione nel caso di mancato accoglimento della ricusazione, possono reputarsi strumenti di tutela inadeguati o incongrui a garantire in modo efficace il diritto della parti alla imparzialità del giudice, dovendosi quindi escludere un contrasto con la norma recata dall'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, la quale, sotto l'ulteriore profilo dei contenuti di cui si permea il valore dell'imparzialità del giudice, nulla aggiunge rispetto a quanto già previsto dal citato art. 111 Cost. (Cass., sent. n. 14807/2008; ord. n. 21094/2017). D'altronde il potere di ricusazione costituisce un onere per la parte, la quale, se non lo esercita entro il termine fissato dall'art. 52 c.p.c., non ha mezzi processuali per far valere il difetto di capacità del giudice. Pertanto, in mancanza di ricusazione, la violazione da parte del giudice dell'obbligo di astenersi non può essere fatta valere in sede di impugnazione come motivo di nullità della sentenza. (sent. n. 26223/2014). Infondato è anche il secondo motivo, con cui il contribuente lamenta la nullità della sentenza perché la carenza di specificità dei motivi di impugnazione imponeva la declaratoria di inammissibilità dell'appello. Mutuando i risultati ermeneutici maturati nel settore processual-civilistico, in tema di specificità dei motivi di appello la giurisprudenza è ripetutamente intervenuta, e, con riguardo alla formulazione dell'art. 342 c.p.c., novellata dalla riforma del 2012, ne ha perimetrato il significato, chiarendo innanzitutto come la modifica introdotta non abbia sconvolto i tradizionali connotati dell'atto d'appello, recependo invece l'interpretazione che della norma (vigente anteriormente al d.l. 83 del 2012) aveva già elaborato la giurisprudenza della Corte, condivisa dalla dottrina maggioritaria (sulla portata della novella del 2012 cfr. innanzitutto Sez. U, sent. n. 27199/2017).

Si è a tal fine chiarito che il nuovo testo dell'art. 342 cit., come già affermato nei precedenti arresti che avevano enucleato il significato del vecchio testo della norma (introdotti con la riforma del 1990), esige che «le questioni e i punti contestati della sentenza impugnata siano chiaramente enucleati e con essi le relative doglianze; per cui, se il nodo critico è nella ricostruzione del fatto, esso deve essere indicato con la necessaria chiarezza, così come l'eventuale violazione di legge. ..... Va quindi riaffermato, recuperando enunciazioni di questa Corte relative al testo precedente la riforma del 2012, che nell'atto di appello deve affiancarsi alla parte volitiva una parte argomenta tiva, che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice.

La maggiore o minore ampiezza e specificità delle doglianze ivi contenute sarà, pertanto, diretta conseguenza della motivazione assunta dalla decisione di primo grado. Ove le argomentazioni della sentenza impugnata dimostrino che le tesi della parte non sono state in effetti vagliate, l'atto di appello potrà anche consistere, con i dovuti adattamenti, in una ripresa delle linee difensive del primo grado; mentre è logico che la puntualità del giudice di primo grado nel confutare determinate argomentazioni richiederà una più specifica e rigorosa formulazione dell'atto di appello, che dimostri insomma di aver compreso quanto esposto dal giudice di primo grado offrendo spunti per una decisione diversa.» (da ultimo cfr. anche ord. n. 11197/2019).

Il principio enucleato è quello secondo cui la parte appellante deve porre il giudice superiore nella condizione di comprendere con chiarezza qual è il contenuto della censura proposta, dimostrando di aver compreso le ragioni del primo giudice e indicando il perché queste siano censurabili.

Tali conclusioni erano quelle cui la giurisprudenza era pervenuta nella vigenza della precedente formulazione della norma, che faceva un espresso richiamo ai "motivi specifici", al pari di quanto richiede, nella materia tributaria, l'art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992 (sin da Cass., sent. n. 887/1987; e poi 3809/1994; Sez. U, 16/2000; 11235/2002, sino a 22502/2014, secondo cui il requisito della specificità dei motivi, di cui all'art. 342 c.p.c. deve ritenersi sussistente, con verifica da effettuarsi in concreto, quando l'atto di impugnazione consenta di individuare con certezza le ragioni del gravame e le statuizioni impugnate, sì da consentire al giudice di comprendere con certezza il contenuto delle censure ed alle controparti di svolgere senza alcun pregiudizio la propria attività difensiva, mentre non é richiesta né l'indicazione delle norme di diritto che si assumono violate, né una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell'impugnazione).

Sicchè il giudizio, nel rispetto del principio del tantum devolutum quantum appellatum, resta inequivocabilmente nell'alveo di una revisio prioris instantiae, senza trasformare l'appello in una sorta di anticipato ricorso per cassazione, che è a critica vincolata (cfr. ord. n. 13535/2018).

D'altronde è principio reiterato quello secondo cui le norme processuali devono essere interpretate in modo da favorire, per quanto possibile, la decisione di merito, «mentre gli esiti abortivi del processo costituiscono un'ipotesi residuale.

Né deve dimenticarsi, come queste Sezioni Unite hanno già ribadito nella sentenza n. 10878 del 2015, che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha chiarito in più occasioni che le limitazioni all'accesso ad un giudice sono consentite solo in quanto espressamente previste dalla legge ed in presenza di un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (v., tra le altre, la sentenza CEDU 24 febbraio 2009, in causa C.G.I.L. e Cofferati contro Italia).» (Sez. U, sent. 27199 cit.; da ultimo, con riguardo al testo successivo alla novella del 2012, ma coerente anche con la precedente formulazione dell'art. 342 c.p.c., cfr. ord. n. 3115/2018, nella parte non massimata ma nel corpo della motivazione; con specifico riguardo al processo tributario cfr. sent. n. 707/2019). I principi enucleati sono peraltro coerenti con quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al contenzioso tributario, come sopra accennato, laddove si sostiene che la mancanza o l'assoluta incertezza dei motivi specifici di impugnazione, che ai sensi dell'art. 53, co. 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 determinano l'inammissibilità del ricorso in appello, non sono ravvisabili qualora il gravame, benché formulato sinteticamente, contenga una motivazione interpretabile in modo inequivoco. Si sostiene a tal fine che gli elementi di specificità dei motivi possono essere ricavati anche per implicito dall'intero atto di impugnazione considerato nel suo complesso, comprese le premesse in fatto, la parte espositiva e le conclusioni (Cass., ord. n. 20379/2017); e ancora più nettamente si sostiene che nel processo tributario il requisito della specificità dei motivi di appello è soddisfatto ove le argomentazioni svolte, correlate con la motivazione della sentenza impugnata, contestino il fondamento logico-giuridico di quest'ultima, mentre non è richiesta una rigorosa enunciazione delle ragioni invocate, quando siano evincibili, anche implicitamente, dall'atto di impugnazione considerato nel suo complesso (Cass., sent. n. 32954/2018; 9083/2017), con l'unico concreto limite dell'atto di appello che riproduca le argomentazioni a sostegno della domanda disattesa dal giudice di primo grado, senza neppure il minimo riferimento alle statuizioni di cui è chiesta la riforma e senza alcuna parte argomentativa che miri a contestare il percorso logico-giuridico della sentenza impugnata (Cass., ord. n. 1461/2017).

In conclusione la riproposizione, a supporto dell'appello proposto dal contribuente, delle ragioni di impugnazione del provvedimento impositivo in contrapposizione alle argomentazioni adottate dal giudice di primo grado assolve l'onere di impugnazione specifica imposto dall'art. 53, d.lgs. n. 546/1992, atteso il carattere devolutivo pieno, in tale giudizio, dell'appello, quale mezzo di gravame non limitato al controllo di vizi specifici, ma volto ad ottenere il riesame della causa nel merito (ord. n. 30525/2018; 1200/2016; 3064/2012).

Alla luce di quanto evidenziato nel caso de quo la lettura dell'atto d'appello consente di superare pienamente la denunciata sua inammissibilità per difetto di specificità dei motivi. È sufficiente evidenziare che nei passaggi dell'atto d'appello, riportati dalla ricorrente nel rispetto del principio di autosufficienza, i motivi di impugnazione ribadiscono anche quelli del ricorso introduttivo, ma con specifico riferimento critico alle argomentazioni utilizzate dal giudice provinciale. Ciò, a prescindere dalla fondatezza, pertinenza e sufficienza dei motivi d'appello, esclude in radice la carenza di specificità dei medesimi.

Trovano invece fondamento il terzo ed il quarto motivo, che possono essere trattati congiuntamente perché connessi. Con essi la società si duole del vizio motivazionale della decisione, per l'omesso esame delle ragioni allegate a sostegno della sua difesa, e del vizio di legge, per non aver considerato che l'accertamento fosse basato sulle mere risultanze degli studi di settore. Questa Corte ha affermato che la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l'applicazione dei parametri o degli studi di settore, ai sensi dell'art. 62 bis e segg. del d.l. 331 del 1993, convertito in I. n. 427 del 1993, costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli "standards" in sé considerati -meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività- ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell'accertamento, con il contribuente; in tale sede quest'ultimo ha l'onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l'esclusione dell'impresa dall'area dei soggetti cui possono essere applicati gli "standards" o la specifica realtà dell'attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell'atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell'applicabilità in concreto dello "standard" prescelto e con le ragioni per le quali non sono state ritenute attendibili le allegazioni del contribuente. L'esito del contraddittorio tuttavia non condiziona l'impugnabilità dell'accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l'applicabilità degli "standards" al caso concreto, da dimostrarsi dall'ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente (Cass., Sez. U, sent. n. 26635 del 2009; più di recente, 13908/2018; 9484/2017; 21754/2017; 14091/2017).

A maggior chiarimento delle conseguenze derivanti dalla ripartizione dell'onere probatorio, si è anche affermato che ogni qual volta il contraddittorio sia stato regolarmente attivato e il contribuente abbia omesso di parteciparvi, oppure, anche partecipando, non abbia allegato alcunché per spiegare lo scostamento, l'Ufficio non è più tenuto ad offrire alcuna ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata in ragione del semplice disallineamento del reddito dichiarato rispetto ai menzionati parametri (cfr. sent. 21754/2017 cit.; da ultimo anche ord. n. 27617/2018). In questo caso infatti la rilevazione dello scostamento, a fronte dell'assenza di elementi con cui il contribuente ne spieghi la sussistenza, assume la dignità di indizio grave e preciso, idoneo, pur se unico, a supportare la dimostrazione del fatto ancora sconosciuto, ai sensi dell'art. 2729 c.c. Ciò tuttavia, pur abilitando l'Amministrazione all'accertamento di un maggior reddito per il mancato allineamento dei ricavi allo studio di settore appropriatamente applicato, non esime il giudice da una analisi dei dati emergenti anche nel contenzioso instauratosi. Se infatti l'atto impositivo può legittimamente fare seguito all'emergere dello scostamento, ciò non è altrettanto sufficiente a vincolare il giudice quando nella fase del contradditorio endoprocedimentale il contribuente si sia limitato a rappresentare oralmente le ragioni giustificative di tale scostamento, oppure abbia inteso solo evidenziare la non gravità dello scostamento. I

l concetto di "allegazione", pur valorizzato dalla giurisprudenza, non deve essere infatti circoscritto al deposito di prove documentali o difese scritte, potendo essere sufficiente la rappresentazione orale delle proprie ragioni e delle proprie valutazioni, peraltro certamente riprodotte in un verbale, che riporti i risultati del contradditorio instaurato e per ciò stesso costituenti una difesa riportata in uno scritto. Saranno tali ragioni a costituire poi oggetto di giudizio critico in sede contenziosa da parte del giudice (cfr. Cass., ord. n. 5327/2019). Ciò chiarito, e perimetrata l'area, le modalità e l'incidenza dello scostamento dei ricavi dallo studio di settore applicato, nel caso di specie la rappresentazione dei fatti e le argomentazioni su cui il giudice regionale ha fondato la decisione prima facie non appaiono aver tenuto conto dei principi di diritto enucleati. La difesa della contribuente, nel rispetto del principio di autosufficienza, ha evidenziato che in sede di appello ebbe a sollevare varie questioni che investivano la legittimità del procedimento di accertamento, ed ebbe a evidenziare le ragioni, già espresse in sede di contraddittorio endoprocedimentale, per le quali contestava l'applicazione del cluster individuato dalla Amministrazione finanziaria, nonché comunque le cause per le quali riteneva giustificato il disallineamento tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dallo studio di settore applicato (crisi del settore economico, esercizio dell'attività economica nella forma della cooperativa di produzione e lavoro a mutualità prevalente, assenza della gravità della incongruenza). Ebbene, a fronte della difesa e delle ragioni allegate dalla contribuente, la motivazione della sentenza sorvola su fatti che assumevano invece valenza decisiva ai fini della decisione -ad es. la circostanza che i soci fossero gli ex dipendenti di una società fallita, riuniti nella forma cooperativa a mutualità prevalente-. Ma soprattutto non tiene conto del principio, ormai consolidato, secondo cui, a fronte delle allegazioni e delle ragioni esposte dal contribuente a giustificazione dello scostamento del reddito dallo studio di settore applicato, sorge l'onere della Agenzia di dimostrare l'applicabilità in concreto dello "standard" prescelto, nonché di esporre le ragioni per le quali non sono state ritenute attendibili le allegazioni del contribuente. La sentenza impugnata non fa corretta applicazione dei suddetti principi, non avvedendosi che in tal modo manca la presenza di indizi gravi e concordanti, idonei a provare presuntivamente il maggior reddito contestato dalla Agenzia alla società. Considerato che La sentenza, per l'accoglimento del terzo e del quarto motivo, va cassata e rinviata alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, sez. staccata di Salerno, che, in altra composizione, deciderà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo e quarto motivo di ricorso; rigetta gli altri; cassa la pronuncia e rinvia la causa alla Commissione Tributaria Regionale della Campania,

sez. staccata di Salerno, la quale, in altra composizione, deciderà anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, il giorno 26 giugno 2019

 

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