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Corte di Cassazione
Ordinanza n. 8750 del 10 aprile 2018
RILEVATO
— che l'Agenzia delle entrate, sulla scorta delle risultanze di un p.v.c. redatto dalla G.d.F. in data 7/11/2008, emetteva un avviso di accertamento a carico della XXX s.a.s. con cui aveva provveduto a rideterminare ai fini IVA, IRES ed IRAP il reddito di impresa conseguito dalla predetta società nell'anno di imposta 2003, imputato per trasparenza, ex art. 5 TUIR (d.P.R. n. 917 del 1986), ai soci XXX e XXX rispettivamente destinatari di separati avvisi di accertamento;
— che l'impugnazione proposta dalla società e dai soci avverso i predetti atti impositivi veniva accolta dalla CTP di Agrigento e l'appello proposto dall'Agenzia delle entrate rigettato dalla Commissione tributaria regionale sul rilievo che i predetti atti impositivi erano stati emessi senza il rispetto del tenutine dilatorio di cui all'art. 12, comma 7, legge n., 212 del 2000 e senza che l'amministrazione finanziaria avesse addotto una qualche ragione di urgenza;
— che avverso tale statuizione ricorre per cassazione l'Agenzia delle entrate sulla base di un unico motivo, cui replicano gli intimati con controricorso;
— che sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art.380 bis cod. proc. civ., risulta regolarmente costituito il contraddittorio, all'esito del quale la controricorrente ha depositato memorie;
— che il Collegio ha disposto la redazione dell'ordinanza con motivazione semplificata;
CONSIDERATO
— che con il motivo di ricorso viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell'art. 12, comma 7, della legge n. 12 del 2000 (cd. Sattuto dei diritti del contribuente), per avere la CTR erroneamente annullato gli atti impositivi perché emessi ante tempa senza però considerare che l'attività dei verificatori era consistita in una mera acquisizione di documenti, peraltro effettuata presso il tenutario delle scritture contabili della società; che, comunque, il mancato rispetto del termine dilatorio di cui alla citata disposizione era nel caso di specie giustificato dalla imminente decadenza del potere accertativo nonché dalla natura e dalla gravità delle violazioni contestate ai contribuenti; che, inoltre, i contribuenti avevano avuto un "dialogo" con l'amministrazione finanziaria a seguito della presentazione dell'istanza di accertamento con adesione; e che, infine, i contribuenti non avevano assolto l'onere di dimostrare le ragioni che avrebbero potuto far valere in sede di contraddittorio endoprocedimentale e l'utilità delle stesse;
— che deve preliminarmente osservarsi che è del tutto irrilevante la circostanza, dedotta dalla ricorrente, relativa all'imprecisa denominazione di "processo verbale di constatazione" utilizzata nella specie dai verificatori per verbalizzare l'attività in concreto posta in essere, costituita da un mero «accesso breve per acquisizione documentale»; al riguardo va, infatti, ricordato che secondo il consolidato orientamento di questa Corte (cfr. Cass. n. 15010 del 2014; v. anche Cass. n. 5374 del 2014), «il termine dilatorio di cui all'art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212 decorre da tutte le possibili tipologie di verbali che concludono le operazioni di accesso, verifica o ispezione, indipendentemente dal loro contenuto e denominazione formale, essendo finalizzato a garantire il contraddittorio anche a seguito di un verbale meramente istruttorio e descrittivo»;
— che, invero, «l'art. 12, comma 7, in esame, che si riferisce, in generale, ai verbali di chiusura delle operazioni di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all'esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali, si muove giustappunto nella direzione dell'ampliamento e del potenziamento del diritto al contraddittorio nella fase d'indagine», con la conseguenza che «non assume alcun rilievo la denominazione formale dei verbali redatti dai verificatori, di guisa che il termine dilatorio di sessanta giorni deve essere rispettato anche qualora il verbale, non denominato formalmente come "pvc", sia un verbale meramente descrittivo delle operazioni di verifica (Cass., ord. 15 marzo 2011, n. 6088; in termini, Cass. 7 aprile 2011, n. 18906)», così come altrettanto privo di rilievo è l'utilizzo improprio del termine "pvc" per verbalizzare attività meramente materiali, come di mera acquisizione documentale; e, d'altro canto, «l'impiego di una locuzione generica come "verbale di chiusura delle operazioni", contenuta nel comma 7 della norma in esame, è difatti capace di comprendere nel proprio ambito tutte le possibili tipologie di verbali che concludano le operazioni di accesso, verifica o ispezione nei locali, indipendentemente dal loro contenuto. Una tale scelta è d'altronde coerente con l'evoluzione del sistema tributario verso moduli partecipativi, in cui le situazioni soggettive dell'erario possono esaurirsi nell'esercizio imparziale di un potere ad imperatività mitigata, che si arresta all'acquisizione delle informazioni utilizzabili ed al mero controllo dell'osservanza degli obblighi strumentali dei contribuenti. Riconoscere l'esercizio del diritto al contraddittorio anche a seguito di un verbale meramente istruttorio che chiuda le operazioni di accesso, verifica o ispezione significa, appunto, determinare le condizioni affinché l'amministrazione possa valutare il proprio interesse non soltanto alla luce degli elementi raccolti, ma anche in base alle osservazioni su di essi rese dal contribuente» (Cass. n. 5374 del 2014 e n. 15010 del 2014); — che, pertanto, «la garanzia di cui all'art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000 n. 212 si applica a qualsiasi atto di accertamento o controllo con accesso o ispezione nei locali dell'impresa, ivi compresi gli atti di accesso istantanei finalizzati all'acquisizione di documentazione, in quanto la citata disposizione non prevede alcuna distinzione ed è, comunque, necessario redigere un verbale di chiusura delle operazioni anche in quest'ultimo caso, come prescrive l'art. 52, sesto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633» (Cass. n. 15624 del 2014; conf. n. 1007 del 2017);
— che, ciò precisato, ritiene il Collegio che, diversamente da quanto prospettato nella proposta ex art. 380 bis cod. proc. civ. (Cass., Sez. U., n. 8999 del 2009, nonché Cass. n. 7605 del 2017), il ricorso è inammissibile per violazione da parte dell'Agenzia ricorrente del principio di autosufficienza del medesimo, sancito dall'art. 366 c.p.c., che impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo; — che, infatti, la ricorrente ha del tutto trascurato di riprodurre nel ricorso il contenuto degli atti redatti dai verificatori, onde consentire a questa Corte, che non ha accesso agli atti di merito in ragione del tipo di vizio denunciato (error in indicando, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) il necessario vaglio di fondatezza della deduzione censoria; attività di riproduzione, quella richiesta alla parte ricorrente, nel caso di specie vieppiù necessaria, non solo perché manca nella sentenza impugnata qualsiasi riferimento al tipo di verifica effettuata dal personale dell'amministrazione finanziaria e la ricorrente non ha depositato alcun documento a corredo del ricorso ex art. 369, secondo comma, n. 6, cod. proc. civ., ma anche perché gli atti processuali non offrono alcuna certezza in ordine alle modalità di effettuazione dell'accesso, che la ricorrente sostiene essere consistito in un «un accesso breve» effettuato «presso il tenutario delle scritture contabili (pag. 12 del ricorso), in ciò contraddetto dalla controricorrente che, invece, sostiene essere stato effettuato un primo accesso presso la sede legale e, quindi, presso il depositario della contabilità societaria (controricorso, pag.5); — che alla dichiarazione di inammissibilità del motivo consegue la condanna della ricorrente, in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento delle spese processuali, liquidate come in dispositivo, mentre, trattandosi di parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l'art. 13, comma 1- quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115; P.Q.M.
dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.300,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso delle spese forfetarie nella misura del 15 per cento dei compensi ed agli accessori di legge.
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