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Se l’Agenzia non contesta una parte della sentenza, questa diventa definitiva, e se è incompatibile con le richieste di riforma delle parti impugnate, determina l’inammissibilità dell’impugnazione. Inammissibile il ricorso del Fisco.

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Estratto: “Secondo insegnamento consolidato, infatti, «ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l'omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l'autonoma motivazione non impugnata, in nessun caso potrebbe produrre l'annullamento della sentenza» (così Cass., Sez. 6-5, Ordinanza n. 9752 del 18/04/2017, Rv. 643802-01). Nella fattispecie in esame non risulta censurata sotto alcun profilo l'autonoma ratio decidendi della sentenza secondo cui «Dalla documentazione agli atti emerge inoltre con estrema chiarezza che la società tanto negli intendimenti che nel comportamento non era una società di comodo è pertanto ad essa non deve essere applicata la normativa che la legge riserva a questo tipo di società”.

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Corte di Cassazione, Sez. 5

Ordinanza n. 5333 del 22 febbraio 2019

RILEVATO CHE:

- l'Azienda Agricola O. S.r.l. impugnava il rigetto di una domanda di rimborso di IVA per l'anno 2008; infatti, con provvedimento del 2/10/2009 l'Agenzia aveva respinto l'istanza della contribuente in forza delle disposizioni dell'art. 3, comma 45, Legge 23/12/1996, n. 662 in quanto la società risulta non operativa secondo i parametri dell'art. 30 Legge 23/12/1994, n. 724;

- la C.T.P. di Palermo accoglieva il ricorso;

- la C.T.R. della Sicilia, con la sentenza n. 144/24/12 del 24/9/2012, respingeva l'appello dell'Agenzia delle Entrate; per quanto ancora rileva in questa sede, il giudice del gravame forniva la seguente motivazione della propria decisione: «appare fondamentale dirimere preliminarmente la controversia circa la natura se l'appellata sia "società di comodo" o meno e se può il Giudice Tributario pronunciarsi in proposito, vista la mancanza di una preliminare istanza di disapplicazione in proposito ... Nel nostro caso non esiste alcuna norma di legge che escluda la cognizione del Giudice tributario sulla questione della ricorrenza o meno delle condizioni per l'applicazione della disciplina sulle società di comodo. Ne consegue che anche se la società non ha presentato l'istanza di disapplicazione, questa Commissione ben può conoscere i motivi di ricorso in ordine alla disapplicazione della relativa normativa. Entrando poi nel merito se la società, per l'anno in questione debba essere considerata società di comodo, la risposta è negativa. Lo svolgimento di un'attività economica necessita di determinati passaggi amministrativi, passaggi che coinvolgono Enti diversi e necessitano di "tempi burocratici" più o meno lunghi. Ivi compresa la necessità di chiedere l'attribuzione di partita IVA per l'ottenimento di quel numero di partita IVA, necessario ed indispensabile per porre in essere qualunque rapporto economico ... Quindi contrariamente a quanto sostiene l'Agenzia, non è la richiesta di attribuzione di partita IVA che dimostra l'esercizio di attività. Mentre ne è sicuramente adempimento propedeutico. Dalla documentazione agli atti emerge inoltre con estrema chiarezza che la società tanto negli intendimenti che nel comportamento non era una società di comodo è pertanto ad essa non deve essere applicata la normativa che la legge riserva a questo tipo di società.»;

- avverso tale decisione l'Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi; resiste con controricorso l'Azienda Agricola O.

CONSIDERATO CHE:

1. Col primo motivo l'Agenzia delle Entrate censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione (ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) degli artt. 3, comma 45, Legge n. 662 del 1996, 30 Legge n. 724 del 1994, 37-bis D.P.R. n. 600 del 1973 e 2697 cod. civ. per avere la C.T.R. ammesso la contribuente a contestare l'applicabilità della disciplina antielusiva dettata per le società non operative pur in mancanza di istanza di interpello ex art. 37-bis D.P.R. n. 600 del 1973, da considerarsi requisito indefettibile per la disapplicazione delle predette norme; inoltre, l'Amministrazione si duole dell'inversione dell'onere probatorio, essendosi preteso dall'Agenzia, oltre al dato formale derivante dall'attribuzione di partita IVA (che segna il primo periodo d'imposta), un'ulteriore prova sul momento di effettivo inizio dell'attività imprenditoriale. 2. Col secondo motivo si censura la decisione della C.T.R. per violazione e falsa applicazione (ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) degli artt. 3, comma 45, Legge n. 662 del 1996, 30 Legge n. 724 del 1994 e 37-bis D.P.R. n. 600 del 1973 per avere individuato la decorrenza del primo periodo d'imposta - nel quale non sono applicabili le norme antielusive - da un momento diverso rispetto a quello in cui è stata attribuita alla società la partita IVA.

3. Il ricorso è inammissibile. Secondo insegnamento consolidato, infatti, «ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l'omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l'autonoma motivazione non impugnata, in nessun caso potrebbe produrre l'annullamento della sentenza» (così Cass., Sez. 6-5, Ordinanza n. 9752 del 18/04/2017, Rv. 643802-01). Nella fattispecie in esame non risulta censurata sotto alcun profilo l'autonoma ratio decidendi della sentenza secondo cui «Dalla documentazione agli atti emerge inoltre con estrema chiarezza che la società tanto negli intendimenti che nel comportamento non era una società di comodo è pertanto ad essa non deve essere applicata la normativa che la legge riserva a questo tipo di società». La predetta statuizione, ulteriore rispetto a quelle precedenti (che sono state fatte oggetto dei motivi di ricorso dell'Agenzia), è di per sé idonea a reggere la decisione in quanto il giudizio espresso dalla C.T.R. sull'inapplicabilità dell'art. 30 Legge n. 724 del 1994 supera tutte le contestazioni dell'Amministrazione sul diritto al rimborso preteso dalla contribuente.

4. Alla declaratoria di inammissibilità fa seguito la condanna dell'Agenzia ricorrente alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di cassazione, le quali sono liquidate nella misura indicata nel dispositivo secondo i vigenti parametri.

5. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto che non sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13 (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550-01).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso, condanna l'Agenzia delle Entrate a rifondere alla controricorrente le spese di questo giudizio, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre a spese forfettarie e ad accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quinta

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