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Allevatori e Fisco: quando l’impresa agricola non può dirsi attività commerciale

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Allevatori e Fisco: quando l’impresa agricola non può dirsi attività commerciale

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La crisi economica ha portato negli ultimi anni e soprattutto i giovani ad investire in business che sembravano oramai arrivati al capolinea, forieri al contrario di numerose opportunità.

Oltre al ritorno al lavoro artigianale ed agricolo, infatti, numerosi progetti imprenditoriali hanno rivolto la propria attenzione al settore dell’allevamento di animali.

Incentivi economici, agevolazioni per i giovani, limitati investimenti iniziali ed elevati standard di qualità portano gli allevatori a creare business di successo che hanno un buon ritorno economico anche in tempi molto brevi.

Che siano ovini, bovini o api l’allevatore o l’imprenditore agricolo che dir si voglia deve come prima cosa disporre di un appezzamento di terreno per mettere in piedi la sua attività. Terreno di proprietà o in affitto, l’allevatore deve quindi avere la disponibilità di un terreno adeguato, sufficientemente grande da consentire l'approvvigionamento ed il ricovero al bestiame, oggi sempre più spesso fattore apprezzato dal consumatore finale attento all'allevamento etico degli animali.

Accanto a questi punti di forza il settore dell’allevamento di animali è poi ben visto dall’ordinamento giuridico e dal sistema fiscale italiano.

In particolare, all'allevatore, in quanto imprenditore agricolo, si applica il regime speciale così come previsto dall’art. 34 DPR 633/1972 che è un regime “agevolato” di detrazione dell’Iva e che prevede una semplificazione amministrativa per l’imprenditore.

L’allevatore che gode del regime speciale è infatti facilitato e sovvenzionato nella tenuta della contabilità specie per quanto riguarda l’esonero dal versamento dell'imposta e dagli altri obblighi documentali e contabili, inclusa la dichiarazione annuale. Egli è comunque tenuto a conservare e numerare tutte le fatture.

Il regime particolare si applica soltanto per le attività di allevamento di animali destinati alla alimentazione umana e non anche agli allevatori di cani o animali da ripopolamento.

Inoltre, l’attività per essere considerata agricola deve essere esercitata e deve essere in stretta connessione con il fondo agricolo. Nel caso dell’allevamento di animali essa per potersi considerare quale agricola deve necessariamente essere svolta utilizzando mangimi ottenibili per almeno un quarto dal terreno agricolo.

Non rispettare questa percentuale comporta per l’allevatore la perdita del regime speciale agevolato e l'assoggettamento al regime fiscale ordinario previsto per tutte le altre attività di impresa e certamente meno vantaggioso.

Inoltre, affinché l’allevatore possa godere delle agevolazioni fiscali è necessario che il bestiame allevato abbia una permanenza sul fondo agricolo per una fase apprezzabile del suo ciclo biologico di vita.

Non di rado, tuttavia, accade che l’allevatore accanto all’attività vera e propria di allevamento di animali diversifichi la sua azione svolgendo anche altre attività commerciali che, teoricamente, non potrebbero rientrare nel regime speciale. Si parla in questo caso di imprese agricole miste proprio perché l’imprenditore agricolo compie occasionalmente attività diverse dalla cessione dei suoi prodotti/animali.

Questi sono i casi che attirano maggiormente l’attenzione dell’Agenzia delle Entrate in quanto l’allevatore sarebbe tenuto ad effettuare la separazione contabile delle due attività.

Quale però sia il discrimine tra attività di allevamento vera e propria ed attività commerciale talora non è sempre chiaro ed intuitivo. Nell’esame della dinamica dei processi si vedono non di rado casi in cui l’Amministrazione Finanziaria commettere degli errori che vedono l’allevatore/contribuente sottoposto ad accertamenti.

Per stabilire, infatti, se l’allevatore svolge attività di impresa commerciale e non agricola bisogna infatti dimostrare che la prima non sia strettamente connessa con l’ausilio del terreno. 

In particolare, gli accertamenti dell’Agenzia delle Entrate, supportati dalle verifiche della Guardia di finanza, mirano a constatare che l'attività di allevamento di bestiame, svolta dal contribuente, possiede caratteristiche dimensionali e requisiti tipiche di un’attività di impresa piuttosto che di un’impresa agricola.

Questi rilievi, in sostanza, si fondano sul sospetto che il reddito prodotto dal contribuente, allevatore, non rientri nei parametri previsti dal regime speciale e quindi non sia reddito agrario, ma un reddito d'impresa celato.

Quanto però gli atti impositivi sono legittimi e regolari (e quando non lo sono) questo è a volte tutto da appurare nel processo instaurato a seguito di ricorso.

Di seguito i casi in cui i giudici, a vari gradi, hanno dato ragione all’allevatore ingiustamente accusato di esercitare attività di impresa o comunque di sfuggire alla tassazione.

Corte di Cassazione, sentenza n. 31595 del 06 dicembre 2018

Questa controversia ha riguardato l'impugnazione di un avviso di accertamento relativo a maggiori IRPEF, IVA, IRAP, dovute da un allevatore per un dato anno d'imposta in quanto la sua attività – si sosteneva – avesse le caratteristiche tipiche di un’attività commerciale piuttosto che agricola e quindi non soggetta al regime speciale previsto per il settore.

Sia i giudici di merito che la Cassazione hanno dato ragione all’allevatore così dichiarando illegittimo l'atto impositivo in quanto il contribuente, esercente l'attività di allevatore, aveva un volume di affari che giustificava l'applicazione del regime speciale dell'IVA e dell'IRAP. Per tali motivi è stata dichiarata la nullità dell'avviso di accertamento.

In particolare, i giudici hanno ritenuto che il processo verbale di constatazione siglato dalla Guardia di Finanza derivante dal controllo dell'attività di produzione di latte di pecora esercitata dal contribuente, si basava su elementi generici e del tutto sommari, non in grado da giustificare la qualificazione dell’attività come vera attività di impresa.

Comm. Trib. Reg. per il Piemonte, sentenza n. 1127 del 30 ottobre 2015

Questa vicenda, invece, ha avuto origine da un ricorso presentato da un allevatore di cavalli avverso l'avviso di accertamento con cui l'Agenzia delle Entrate aveva accertato un reddito non dichiarato derivante da somme vinte in seguito alla partecipazione a gare ippiche e perciò avente carattere commerciale e non agricolo. Tale reddito, quale reddito di impresa, avrebbe dovuto essere sottoposto a tassazione.

La CTR ha ritenuto nullo detto avviso ritenendo non sufficientemente provata la tesi dell'Amministrazione Finanziaria in quanto non era stato dimostrato in maniera certa il numero di cavalli di proprietà del contribuente, coltivatore diretto ed appassionato di cavalli.

Comm. Trib. Reg. per la Sardegna, sentenza n. 405 del 14 giugno 2019

Infine, questo caso ha avuto origine dal ricorso promosso da un contribuente esercente l’attività di allevatore che nell'esercizio della propria attività ha costruito un fienile ed un ovile, affrontando in prima persona i costi dell'investimento, costi che sono stati poi annotati nel registro dei beni ammortizzabili.

L'Agenzia delle Entrate aveva, invece, contestato il credito vantato dall’allevatore il quale aveva realizzato le opere su un terreno ceduto in comodato dal padre.

I giudici hanno finito col dare ragione al contribuente considerando le opere costruite beni strumentali all’esercizio dell’attività in quanto opere indispensabili per il rifugio per il bestiame e la conservazione delle scorte.

Per tali motivi è stato dichiaravano il diritto al rimborso del contribuente in quanto il fienile e l’ovile devono essere considerati beni materiali ammortizzabili e non immobilizzazioni immateriali, essendo gli stessi nel pieno possesso dell'imprenditore.

 

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