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Verifiche dell’Agenzia delle Entrate a carico del commercialista. 3 esempi di casi in cui il processo si è concluso a favore del contribuente.

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Verifiche dell’Agenzia delle Entrate a carico del commercialista. 3 esempi di casi in cui il processo si è concluso a favore del contribuente.

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L’attività di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali non esime neppure i commercialisti, ovvero i soggetti chiamati in prima linea ad ottemperare alla normativa fiscale e garantire corrette condotte fiscali dei clienti che seguono.

Beni di lusso, lavoratori in nero, dichiarazioni dei redditi che non corrispondono al vero, esistenza di autonome organizzazioni soggette ad IRAP: sono queste alcune delle accuse mosse ai commercialisti. Ecco allora che anche gli esperti di contabilità, proprio in quanto conoscitori qualificati del sistema fiscale italiano, sono in alcuni casi sotto accusa per aver messo in piedi (secondo un’ipotetica accusa) un sistema fiscalmente irregolare.

La finalità sarebbe di regola quella di sottrarre all’imposizione fiscale i ricavi percepiti nell’esercizio della propria attività libero professionale con conseguente evasione dell’Iva dovuta.

Le indagini condotte dalla Guardia di Finanza sono dirette spesso a ricostruire il reddito del commercialista, incrociando i dati acquisiti in occasione delle verifiche presso lo studio del professionista con i dati presenti nelle banche dati ufficiali, in particolare con lo spesometro, da cui si evincono le fatture emesse e ricevute da ogni contribuente titolare di partita Iva.

Da ciò si arrivano a riscontrare eventuali incongruenze tra il reddito percepito ed il dichiarato.

Inoltre, verifiche potrebbero derivare anche da un’eventuale assunta incompatibilità tra il reddito dichiarato ed il tenore di vita del contribuente.

Ad essere passati in rassegna potrebbero essere gli immobili intestati al contribuente, eventuali auto di lusso, vacanze e spese sostenute considerate eccessive.

Attraverso i controlli fiscali e gli elementi raccolti l’Amministrazione Finanziaria potrebbe arrivare così a quantificare una diversa capacità contributiva del libero professionista e quindi determinare i redditi ritenuti percepiti.

Ed ancora, le accuse riguardano anche in diversi casi un presunto contributo attivo del commercialista ai fini della costituzione di società a cui è dappoi contestata l’emissione di fatture false.

Insomma, attraverso gli accertamenti, anche induttivi e basati su raffronti statistici, l'Amministrazione Finanziaria potrebbe ipotizzare inoltre incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dall’attività svolta.

Inoltre, il commercialista deve prestare attenzione alle concrete modalità di svolgimento della sua attività in quanto, alcune contestazioni riguardano la sussistenza di una struttura organizzata e strutturata, e quindi soggetta ad Irap.

E così, studi professionali, spese sostenute per collaboratori, arredi per l'esercizio della propria attività professionale, stampanti e scanner sono esaminati in maniera certosina da parte degli accertatori ed assumono rilevanza indiziaria su cui fondare la presunzione di un’autonoma organizzazione.

Eppure non di rado si tratta di dotazioni minime, indispensabili all'esercizio della professione che non provano in maniera così chiara l'esistenza di autonoma organizzazione in quanto non forniscono al professionista quel supporto extra o supplementare, né potenziano la sua attività.

Sotto questo profilo le valutazioni svolte dall’Agenzia delle Entrate potrebbero essere errate, inadeguate od incomplete in quanto limitate alle rilevazioni delle spese sostenute dal commercialista nella tenuta del suo studio senza operare un'analisi critica ed obiettiva che giustifichi l'utilizzo di una organizzazione autonoma.

Dunque il commercialista in alcuni casi si trova costretto a dimostrare la sua stessa regolarità fiscale. Ecco alcuni casi in cui il processo si è concluso a favore del commercialista.

Corte di Cassazione, sentenza n. 14087 del 7 giugno 2017

La vicenda in esame ha avuto origine da un avviso di accertamento emesso dall'Agenzia delle Entrate nei confronti di un dottore commercialista ed amministratore di condomini, relativo a presunti maggiori redditi percepiti e non dichiarati, sulla base di movimenti bancari eseguiti dal professionista, da cui erano emersi versamenti e prelevamenti che il contribuente non sarebbe riuscito a giustificare.

Il professionista, tuttavia, esercente anche l’attività di amministratore di condomini, aveva successivamente dimostrato che le movimentazioni bancarie contestate erano riferite alla sua attività di maneggio di denaro altrui.

A tal fine erano stati prodotti copia di tutti gli assegni ed i bonifici, con indicazione delle motivazioni per cui erano stati disposti, unitamente ad una perizia di parte in cui erano stati indicati i nominativi dei beneficiari dei versamenti di denaro e delle relative motivazioni.

In tutto ciò, l’Agenzia aveva anche considerato ricavi quanto prelevato dal professionista.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso del contribuente essendo venuta meno la presunzione secondo cui i prelevamenti attuati sui conti correnti bancari siano riferibili ai ricavi conseguiti nella propria attività dal lavoratore autonomo o dal professionista intellettuale. Pertanto, a parere dei giudici, ricade sull'Amministrazione Finanziaria l'onere di provare che i prelevamenti ingiustificati dal conto corrente bancario, privi di riscontro nelle scritture contabili, siano correlati alla produzione di reddito professionale e quindi soggetti a tassazione.

Corte di Cassazione, Ordinanza n. 22473 del 9 settembre 2019.

Questa vicenda, affrontando la tematica dell’Irap, ha avuto origine dal silenzio rifiuto formatosi sull'istanza di rimborso dell'IRAP versata da un contribuente esercente l’attività di commercialista.

La Suprema Corte ha chiarito in proposito che il requisito dell'autonoma organizzazione sussiste solo se i compensi, anche elevati, riconosciuti a collaboratori, siano strettamente connessi all'attività professionale svolta dal contribuente nonché in grado di potenziarne l'attività produttiva. Le retribuzioni elevate non sono di per sé sufficienti a giustificare la sussistenza di un’autonoma organizzazione in quanto, rappresentando dei costi, esse possono anche non essere correlate all'implementazione dell’attività.

A parere dei giudici l’Irap è quindi dovuta solo quando, in relazione al caso concreto, l’Agenzia accerti che le retribuzioni erogate a terzi collaboratori sono relative a prestazioni dirette ad accrescere e potenziare l’attività del commercialista.

Corte di Cassazione, ordinanza n. 4660 del 22 febbraio 2017.

Dello stesso tenore della precedente questa vicenda ha preso avvio dalle contestazioni inerenti ad un presunto assoggettamento ad Irap di un commercialista desunto dall’elevato ammontare dei ricavi e dalle spese da egli sostenute per la gestione dello studio professionale quali le spese per l’utilizzo di servizi di terzi e dotazioni strumentali.

Il commercialista si è difeso dimostrando di svolgere la sua attività all’interno di uno studio associato, non sottoposto alla sua responsabilità, sostenendo minime spese, non eccedenti il minimo indispensabile, relative ad arredamenti ed emolumenti riconosciuti a terzi collaboratori.

Innanzitutto, i giudici hanno ritenuto che ai fini della sussistenza di un’autonoma organizzazione sarebbe stato indispensabile motivare un’effettiva incidenza di spese, compensi a terzi e beni strumentali, sul concreto esercizio dell’attività professionale svolta.

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