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Avviso di accertamento con cui si contesta l'esterovestizione della società: 3 esempi di sentenze concluse a favore della società contribuente

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Dalle verifiche fiscali condotte negli ultimi anni emerge che le aziende italiane sempre più spesso decidono di trasferire all’estero le loro imprese, ma in determinati e a determinate condizioni, l’Agenzia delle Entrate contesta alle stesse che quel trasferimento non è effettivo.

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Contestazioni simili riguardano moltissime aziende, tra cui alcune di quelle che gestiscono grandi marchi nel settore della moda ma anche le aziende operanti nel settore dell’economia digitale, nel settore siderurgico ed in quello finanziario.

Eppure spesso, all’interno di queste verifiche, non si tiene in considerazione che la partecipazione alla Comunità Europea ha assicurato ed anche facilitato la c.d. libertà di stabilimento grazie alla quale le imprese possono liberamente esercitare la loro attività o aprire filiali e succursali in uno dei Paesi dell’Unione.

Alcune volte, quindi, alla base del trasferimento vi sono esigenze produttive e scelte di management. Spesso però, nella dinamica delle verifiche, l’Agenzia delle Entrate individua solo ragioni speculative, mirate, secondo gli assunti dei verificatori, ad evadere il Fisco Italiano.

L’internazionalizzazione dell’economia ha portato al superamento dei confini ed alla c.d. delocalizzazione produttiva. Ma affianco alle sedi produttive talora le aziende decidono di sportare all’estero anche i loro quartier generali, sia per questioni di snellezza burocratiche che per ridurre i costi.

D’altro solo quando si trasferisce all’estero la residenza fiscale di una società che in realtà continua ad essere amministrata e ad opera in Italia, ecco che si verifica il fenomeno dell’esterovestizione societaria. In poche parole, per dare corpo alle contestazioni, si dovrebbe effettivamente verificare una delocalizzazione del tutto fittizia all’estero di una società che in tutto e per tutto opera in Italia.

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Che cos’è l’esterovestizione societaria

Per capire il concetto di esterovestizione è bene fare una premessa che partire dal concetto di residenza fiscale.

In particolare, per essere assoggettata al regime fiscale italiano una società (o un ente) deve avere la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale in Italia per la maggior parte del periodo di imposta. Lo prevede l’art. 73 del TUIR.

L’esterovestizione, quindi, si identifica con la fittizia localizzazione all’estero di aziende o enti che operano in Italia allo scopo di godere di un regime fiscale più favorevole, meno severo di quello italiano.

Per capire se l’azienda ha effettivamente trasferito all’estero il suo business o, in realtà, si tratta di un trasferimento fittizio, generalmente la Guardia di Finanza effettua controlli serrati che partono con delle verifiche documentali.

In poche parole, si verifica l’esterovestizione societaria e quindi si riscontra un abuso del diritto di stabilimento quando vengono accertati due elementi:

1) l’attività di impresa non è effettivamente esercitata nel Paese estero né in detto Pese vengono prese le decisioni più importanti della società e quindi la localizzazione all’estero dell’impresa è fittizia;

2) da questo stratagemma ne deriva un risparmio di imposta e quindi un beneficio fiscale.

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Quali conseguenze comporta l’esterovestizione societaria

Dal punto di vista fiscale, il comportamento della società che esercita in maniera fittizia la sua attività all’estero è considerato antigiuridico.

Ciò in quanto la società contribuente, mistificando la sua reale ubicazione, si sottrae agli adempimenti fiscali richiesti dalla legislazione italiana ottenendo, di fatto, un vantaggio tributario.

Questa prassi, pertanto, comporta delle conseguenze oltre che dal punto di vista tributario anche sotto il profilo penale portando all’applicazione di alcune fattispecie di reati relativi al mancato pagamento delle imposte o alle condotte evasive.

Analizzando ora le conseguenze tributarie ed impositive, vediamo cosa è tenuta a provare l’Amministrazione Finanziaria per provare l’esterovestizione di una società e quindi recuperare le maggiori imposte ritenute evase.

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Onere della prova in caso di esterovestizione

In sede di formazione dell’atto impositivo così come nel successivo contenzioso tributario se vi è realmente esterovestizione di una società o di un ente, l’onere della prova grava sull’Amministrazione Finanziaria e quindi sull’Agenzia delle Entrate, vigendo per l’impresa la presunzione di residenza.

In particolare, l’oggetto dell’accusa deve fondarsi sue due punti cardine: l’oggetto e la sede della società.

In particolare, affinchè vi sia esterovestizione è necessario che l’oggetto, cioè l’attività concretamente svolta, sia stata esercitata in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta. Ovvero, occorre che la sede amministrativa o direzionale, si sia svolta in Italia sempre per la maggior parte del periodo d’imposta.

In tal senso, gli accertatori dovranno dimostrare che il fulcro dell’azienda è in Italia attraverso la ricerca e la produzione in giudizio di scambi di email, documentazione, autorizzazione dei pagamenti, svolgimento delle riunioni e delle assemblee, ecc.

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Tre esempi di casi conclusi a favore della società contribuente.

1) Corte di Cassazione, sentenze n. 33234 e 33253 del 21 dicembre 2018

Dopo le fasi di merito negative, la Corte di Cassazione, con queste sentenze, ha dato finalmente ragione alla società contribuente, una casa di moda accusata di avere il proprio centro direzione a Milano anche se aveva ceduto il proprio marchio ad una società avente sede in Lussemburgo.

In particolare, l’Agenzia delle Entrate riteneva che in Lussemburgo non esisteva nessuna sede amministrativa o decisionale e che questa sede era stata costituita appositamente solo per ottenere un regime fiscale più mite.

Con queste due pronunce gli ermellini hanno ritenuto non sufficiente la mancata autonomia gestionale e amministrativa della società con sede a Lussemburgo così come non erano sufficienti le asserzioni per cui i manager lussembirghesi in realtà operavano in Italia, senza fare alcun riferimento alle loro attività svolte nel Paese d’origine.

2) Corte di Cassazione, sentenza n. 14527 del 28 maggio 2019.

Con questa sentenza la Cassazione ha dato ragione ad un’impresa accusata di essere stata fittiziamente costituita in Olanda al fine di godere dei privilegi relativi alla tassazione dei dividendi.

In questo caso i giudici di Piazza Cavour si sono soffermati sul concetto di sede effettiva ed hanno ritenuto che una società straniera non può dirsi esterovestita solo perché il cda si è svolto all’estero mentre gli amministratori sono residenti nel Ben Paese.

3) Sentenza della Commissione tributaria provinciale di Varese n. 125/03/2013.

Anche questa sentenza ha dato ragione alla società accusata di esterovestizione dall’Agenzia delle Entrate in quanto i documenti prodotti in giudizio (bonifici, fatture, relazioni di gestione e note) non sono stati ritenuti sufficienti dai giudici a dimostrare l’effettiva sede in Italia della società avente sede amministrativa all’estero.   

I giudici, in particolare, hanno ritenuto che tali elementi non possono indicare in maniera incontrovertibile la localizzazione della sede amministrativa di una società in Italia, ma al massimo dimostrare che amministratori e soci avevano la documentazione societaria dietro per svolgere le loro funzioni o monitorare la situazione.

Insomma, tali elementi non erano sufficienti a dimostrare la residenza fiscale in Italia della società ritenuta responsabile di esterovestizione.

 

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