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Fatture soggettivamente inesistenti: la Cassazione ne ribadisce la deducibilità anche se il contribuente era consapevole del carattere fraudolento delle operazioni.

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Estratto: “questa Corte ha precisato che, ai fini delle imposte sui redditi, a norma della legge 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4 bis, nella formulazione introdotta con il decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 1, (convertito con la L. 26 aprile 2012, n. 44), l'acquirente dei beni può dedurre i costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti (non utilizzati direttamente per commettere il reato) anche per l'ipotesi in cui sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che, a norma del Testo Unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità”.

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Corte di Cassazione, Sez. 5

Ordinanza n. 13339 del 17 maggio 2019

rilevato che:

la sentenza impugnata ha esposto, in punto di fatto, che: l'Agenzia delle entrate aveva notificato alla ricorrente, esercente l'attività di vendita di autovetture, un avviso di accertamento con il quale, relativamente all'anno di imposta 2002, veniva contestata l'illegittima detrazione Iva e la deducibilità dei costi e irrogate le conseguenti sanzioni, essendo emerso, a seguito di una verifica compiuta dalla Guardia di finanza, che le operazioni di acquisto di autovetture da un fornitore estero erano state compiute con l'interposizione di un soggetto fittizio, la C. di CC.;

avverso il suddetto atto aveva proposto ricorso la contribuente;

la Commissione tributaria provinciale di Brescia aveva accolto il ricorso, avendo ritenuto che l'amministrazione finanziaria era decaduta dal potere di accertamento, non essendo applicabile il raddoppio dei termini per l'accertamento, ai sensi dell'art. 37, commi 24 e 25, del decreto-legge n. 223/2006; avverso la suddetta pronuncia aveva proposto appello l'Agenzia delle entrate; la Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione staccata di Brescia, ha accolto l'appello, in particolare ha ritenuto che: ai fini dell'applicabilità del raddoppio dei termini per l'accertamento, era sufficiente la violazione che comporta un obbligo di denuncia, ai sensi dell'art. 331 cod. proc. pen., in particolare la segnalazione della Guardia di finanza alla Procura della Repubblica di un fatto penalmente rilevante; nel merito, la gravità dei fatti e dei personaggi coinvolti nella frode carosello era stata "ampiamente spiegata" dall'ufficio finanziario; sussistevano dubbi sulla buona fede della società contribuente nell'operazione in esame, essendo la stessa entrata in relazione con il CC (ex operaio, nullatenente e dedito ad attività illecite) e potendo, quindi, esigersi dallo stesso la dovuta diligenza nell'acquisizione delle necessarie informazioni; non poteva darsi rilevanza, sotto il profilo fiscale, alla circostanza che le operazioni in esame erano state solo sette nel 2002 e una nel 2003; ulteriori dubbi derivavano dalla circostanza che il CR era stato condannato in sede penale con sentenza passata in giudicato: avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso dinanzi a questa Corte la società contribuente affidato a cinque motivi di censura, cui ha resistito l'Agenzia delle entrate con controricorso; la società ha, altresì, depositato memoria;

considerato che:

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell'art. 43, comma 1, del d.P.R. n. 600/1973 e dell'art. 57 del d.P.R. n. 633/1972 (come integrati dall'art. 37, commi 24 e 25 del decreto-legge n. 223/2006); in particolare, parte ricorrente rileva l'erroneità della pronuncia per avere ritenuto legittimo il raddoppio dei termini per la notifica dell'avviso di accertamento fondato sulla sufficienza della mera ipotesi di reato, non avendo tenuto conto del fatto che, nella fattispecie, non era stata mai prodotta in giudizio la notitia criminis, non consentendo, in tal modo, al giudice, di potere valutare la sussistenza dei presupposti per il raddoppio dei termini; osserva, inoltre, che nel processo verbale di constatazione, allegato all'avviso di accertamento, era stato fatto riferimento a responsabilità penali del CR, ma riferibili unicamente al suo, distinto e differente, ruolo di amministratore unico di altra società (la A. s.r.I.); inoltre, lamenta l'illegittima applicazione del raddoppio dei termini una volta che era spirato il termine "ordinario" di accertamento; il motivo è infondato;

questa Corte (Cass. civ. Sez. V, 13 settembre 2018, n. 22337; Cass. civ., sez. V., 30 maggio 2016, n. 11171), sulla questione dei limiti di applicabilità del raddoppio dei termini per l'adozione dell'atto di accertamento ha precisato che il raddoppio dei termini deriva dal mero riscontro di fatti comportanti l'obbligo di denuncia penale ai sensi dell'art. 331 c.p.p., indipendentemente dall'effettiva presentazione della denuncia, dall'inizio dell'azione penale e dall'accertamento penale del reato, restando irrilevante, in particolare, che l'azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna; infatti, come, evidenziato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011, l'unica condizione per il raddoppio dei termini è costituita dalla sussistenza dell'obbligo di denuncia penale, indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorga e dal suo adempimento, sicchè "il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell'obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta "prognosi postuma") circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l'amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento"; con riferimento alla fattispecie, il giudice del gravame ha ritenuto che, ai fini dell'applicabilità del raddoppio dei termini, è sufficiente che sussista la violazione tributaria che comporta l'obbligo di denuncia ai sensi dell'art. 331 cod. proc. civ., ponendosi, quindi, in linea con l'interpretazione normativa sopra illustrata; non rileva, peraltro, la considerazione espressa dalla parte ricorrente in ordine alla mancata produzione in giudizio della documentazione su cui si è fondato il raddoppio dei termini; il raddoppio attiene solo alla commisurazione del termine di accertamento ed i termini raddoppiati sono anch'essi termini fissati direttamente dalla legge, operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva, senza che all'amministrazione finanziaria sia riservato alcun margine di discrezionalità per la loro applicazione, sicchè non vi è necessità di esternare le ragioni in base alle quali l'Ufficio ritiene operante il termine raddoppiato, in quanto l'applicazione dello stesso non dipende da una sua scelta discrezionale; pertanto, l'atto impositivo non deve contenere una specifica motivazione sul punto, in quanto il suddetto onere, previsto dalla legge n. 212 del 2000, art. 7, è finalizzato a mettere il contribuente in grado di conoscere l'an ed il quantum della pretesa tributaria, per approntare idonea difesa, e a delimitare l'ambito delle ragioni adducibili dall'Ufficio nell'eventuale successiva fase contenziosa (cfr. Cass. 7 maggio 2014, n. 9810; Cass. 10 giugno 2009, n. 13335); né rileva, come ulteriore profilo di censura, l'insussistenza, nel caso, in esame, di ipotesi di reato attribuibili alla condotta del legale rappresentante della società contribuente; va osservato, in primo luogo, che parte ricorrente, in violazione del principio di autosufficienza, si limita a riportate i passaggi dei propri atti difensivi, (vd. pag. 12, nota 2), senza tuttavia riportare il contenuto dell'atto di accertamento o del processo verbale di constatazione, al fine di consentire a questa Corte di apprezzare la doglianza sotto il profilo della mancata sussistenza di fatti di reato per i quali l'art. 331 cod. proc. pen., impone l'obbligo della denuncia; d'altro lato, si ricava dal controricorso (vd. pag. 5), che nell'atto impositivo si era accertato che nel corso del controllo sono emerse situazioni penalmente rilevanti per l'anno di imposta 2002, costituite dall'utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, che hanno comportato comunicazione di notizia di reato all'autorità giudiziaria; inoltre (vd. pag. 6) si è ulteriormente riprodotto il contenuto dell'atto di accertamento nella parte in cui ha precisato che tra le aziende che risultano partecipare al sodalizio criminoso, posto in essere mediante il ricorso sistematico alle fatture per le operazioni soggettivamente inesistenti vi è l'A. s.r.I., con sede in XXX, utilizzatrice di fatture false; si evince, dunque, dai suddetti passaggi dell'atto di accertamento, che, a seguito delle verifiche, si era ipotizzata la sussistenza di illeciti penalmente rilevanti a carico della società contribuente in esame, profilo che acquista particolare rilevanza ai fini della corretta applicazione del raddoppio del termine per l'attività di accertamento; pertanto, poiché il giudice del gravame ha dato atto che, nel caso in esame, era sufficiente la violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell'art. 331 cod. proc. pen., e ritenuto, conseguentemente, che i termini ordinari per l'azione accertatrice fossero raddoppiati, ha quindi fatto corretta applicazione dei principi di diritto richiamati; inoltre, con riferimento alla ulteriore questione prospettata, relativa alla ritenuta illegittimità dell'applicazione della previsione del raddoppio dei termini nel caso, come quello in esame, in cui l'accertamento era avvenuto quando i termini di decadenza erano oramai spirati, va osservato che trova applicazione al caso in esame, quanto previsto dall'art. 37, comma 26, del decreto-legge n. 223/2006, secondo cui il raddoppio dei termini si applica dal periodo d'imposta per il quale, alla data di entrata in vigore del medesimo decreto-legge, siano ancora pendenti i termini ordinari per l'accertamento, per cui interessa anche il caso in esame, relativo ad un avviso di accertamento emesso in relazione al periodo di imposta 2002; con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell'art. 19 del d.P.R. n. 633/1972, per avere ritenuto di dovere fare ricadere sulla società contribuente le conseguenze del mancato pagamento dell'Iva da parte del venditore, nonostante, peraltro, la stessa avesse dedotto una pluralità di circostanze convergenti nell'escludere qualsiasi coinvolgimento nel comportamento fraudolento commesso dal venditore; il motivo è inammissibile; va osservato, in particolare, che nel motivo di ricorso in esame non viene indicato specificamente quale passaggio della sentenza viene sottoposto a censura, salvo fare generico riferimento al passaggio della motivazione secondo cui il CC era un ex operaio, nullatenente che creava aziende truffaldine, non versava l'Iva incassata e che ha costituito la C. per interporsi fra una società straniera ed i clienti italiani; il motivo, pertanto, non coglie la ratio decidendi della pronuncia impugnata; invero, il giudice del gravame, dopo avere dato per accertato che nella fattispecie sussisteva una frode carosello (profilo non posto in discussione con il presente motivo di ricorso) ha argomentato sulle ragioni per le quali ha ritenuto che non poteva dirsi sussistente la buona fede della società contribuente; i passaggi motivazionali sulla cui base il giudice del gravame ha ritenuto non sussistente la buona fede della società contribuente non sono stati oggetto di specifica censura con il presente motivo di ricorso, che si è limitato a dedurre la astratta non attribuibilità alla contribuente degli effetti del mancato pagamento dell'Iva da parte del venditore nonché la deduzione di elementi di valutazione che avrebbero dovuto condurre a escludere il proprio coinvolgimento nella operazione fraudolenta; in ogni caso, con riferimento al primo profilo, va osservato che, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa della ricorrente, non si pone nella fattispecie una questione di attribuzione a titolo solidale della responsabilità per mancato versamento dell'Iva da parte del venditore; in realtà, va considerato che, ai fini della legittima detrazione dell'Iva, punto di partenza è l'esistenza di una fattura che sia conforme ai requisiti di forma e contenuto richiesti dalla vigente disciplina (d.P.R. n. 633/1972, art. 21 e, con riguardo al diritto unionale, art. 22, par. 3, della Sesta direttiva): essa, in quanto tale, fa presumere la verità di quanto ivi rappresentato, sicchè costituisce titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell'Iva; in questo contesto, l'art. 168, lett. a), della Direttiva n. 2006/112, puntualizza le condizioni sostanziali per beneficiare di tale diritto: occorre, da un lato, che l'interessato sia un soggetto passivo ai sensi di tale direttiva e, dall'altro, che i beni o servizi invocati a base di tale diritto siano utilizzati a valle dal soggetto passivo ai fini delle proprie operazioni soggette a imposta e, a monte, che detti beni o servizi siano forniti da un altro soggetto passivo (v. tra le tante Corte di Giustizia 6 settembre 2012, Toth, C-324/11; Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14; Corte di Giustizia 19 ottobre 2017, SC Paper Consult, C-101/16); pertanto, la falsità della fattura, circostanza non posta in discussione nella presente fattispecie, è idonea ad escludere la riconoscibilità del diritto di detrazione; in particolare, nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, in cui le operazioni sono state rese al destinatario, che le ha effettivamente ricevute, da un soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione rappresentata nella fattura l'Iva non è, in linea di principio, detraibile, perchè versata ad un soggetto non legittimato alla rivalsa, nè assoggettato all'obbligo di pagamento dell'imposta, per cui non entrano nel conteggio del dare ed avere ai fini Iva le fatture emesse da chi non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni fatturate, in quanto tali fatture riguardano operazioni, per quanto lo riguarda, inesistenti, senza che rilevi che le stesse fatture costituiscano la "copertura" di prestazioni acquisite da altri soggetti (v. Cass. civ., 7 ottobre 2015, n. 20060); è, quindi, sulla base di quanto sopra evidenziato che, correttamente, il giudice del gravame ha ritenuto che era legittima la pretesa fatta valere dall'amministrazione finanziaria nei confronti della contribuente, non riconoscendo il diritto alla detrazione per la ritenuta realizzazione di operazioni soggettivamente inesistenti; con riferimento al secondo profilo, va osservato, come già detto, che il giudice del gravame ha espresso una propria valutazione in ordine alla mancanza di buona fede della società contribuente; vanno, a questo punto, fatte due considerazioni: in primo luogo, parte ricorrente non censura espressamente la parte motivazionale della sentenza con cui si è ritenuta non sussistente la buona fede della società contribuente, ma si limita a evidenziare che, nei precedenti atti difensivi e documenti prodotti / aveva evidenziato circostanze che avrebbero dovuto condurre il giudice del gravame ad escludere la consapevolezza della medesima società all'operazione fraudolenta posta in essere; si tratta, tuttavia, di circostanze che, eventualmente, avrebbero dovuto essere prospettate quali ragioni di censura per vizio motivazionale della sentenza, ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., avendo, sul punto, la pronuncia censurata valutato gli elementi a disposizione e ritenuto di dovere escludere la buona fede della contribuente; in secondo luogo, il motivo di ricorso in esame non ha prospettato una eventuale violazione del riparto dell'onere probatorio di cui all'art. 2697 cod. civ., profilo sul quale questa Corte (Cass. civ., 20 aprile 20181n. 9851) ha chiarito, nella materia in esame, quali siano gli oneri di prova gravanti sull'amministrazione finanziaria e sul contribuente sotto il profilo della sussistenza delle condizioni soggettive per il non riconoscimento del diritto alla detrazione; questo profilo, pertanto, non è stato coltivato dalla ricorrente con il presente motivo di censura e, proprio alla luce di tale considerazione, non può darsi rilievo a quanto esposto nella memoria ove, nel richiamare la giurisprudenza unionale e interna sul punto, viene prospettata la questione del mancato assolvimento dell'onere probatorio gravante sull'amministrazione finanziaria, dovendo dimostrare che la contribuente sapesse che i fornitori non avevano provveduto al versamento dell'Iva; con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell'art. 109 (già art. 75), del d.P.R. n. 917/1986, per avere, implicitamente, rigettato il motivo di ricorso relativo di diritto alla deducibilità del costi; il motivo è fondato; questa Corte ha precisato che, ai fini delle imposte sui redditi, a norma della legge 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4 bis, nella formulazione introdotta con il decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 1, (convertito con la L. 26 aprile 2012, n. 44), l'acquirente dei beni può dedurre i costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti (non utilizzati direttamente per commettere il reato) anche per l'ipotesi in cui sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che, a norma del Testo Unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità; la nuova normativa, invero, espressamente applicabile (cit. decreto-legge n. 16 del 2012, ex art. 8, comma 3) ove più favorevole, anche per atti, fatti o attività poste in essere prima dell'entrata in vigore dello stesso comma 1 (Cass. 24426/2013; 10167/2012; 3258/2013), comporta che non è più sufficiente, per ritenere indeducibili, ai fini delle imposte dirette, i costi di dette operazioni, il coinvolgimento (anche consapevole) dell'acquirente in operazioni fatturate da soggetto diverso dall'effettivo venditore, ferma restando, tuttavia (come detto), la verifica della concreta deducibilità dei costi stessi in relazione ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità; la pronuncia censurata, quindi, non avendo riconosciuto il diritto alla deduzione dei costi, non è in linea con lo ius superveniens sopra indicato, sicché deve trovare accoglimento il motivo di censura in esame, con conseguente necessità, in sede di giudizio di rinvio, di accertamento della concreta deducibilità dei costi; con il quarto motivo si censura la sentenza ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione dell'art. 2697, cod. civ., per non avere fatta corretta applicazione dei principi di riparto dell'onere della prova; il motivo è inammissibile; anche in questo caso, come esposto con riferimento al secondo motivo di ricorso, parte ricorrente non indica espressamente quale passaggio motivazionale è fatto oggetto di specifica censura, facendo genericamente riferimento alla necessità del riparto dell'onere della prova in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, senza tuttavia tenere conto del fatto che la pronuncia censurata ha specificato che: a) non vi era questione sulla sussistenza di una operazione fraudolenta volta all'illegittima detrazione dell'Iva sull'acquisto; b) doveva escludersi la buona fede della contribuente; questi specifici passaggi motivazionali non sono stati oggetto di doglianza da parte della ricorrente, sicchè non possono trovare applicazione, nella fattispecie, le precisazioni compiute da questa Corte (Cass. civ., sez. V, n. 9851/2018, cit.) in ordine al riparto dell'onere di prova in caso di operazioni soggettivamente inesistenti; con il quinto motivo si censura la sentenza ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell'art. 112 cod. proc. civ., per non avere pronunciato sulla nullità dell'avviso di accertamento ravvisata dalla ricorrente per mancata allegazione della segnalazione della Tenenza di XXX e in quanto il processo verbale di constatazione rinviava alle risultanze di precedenti verifiche ed agli atti di indagini penali a carico del fornitore, senza alcuna allegazione; il motivo è inammissibile; parte ricorrente, va osservato, si limita a segnalare che la questione del difetto di motivazione dell'atto impugnato era stata dalla stessa prospettata con il ricorso in primo grado, ma non ha riprodotto il contenuto della memoria di costituzione dal quale evincere che la questione era stata riproposta in termini di eccezione all'appello dell'Agenzia delle entrate; d'altro lato, nell'illustrazione, compiuta dalla sentenza censurata, delle ragioni di difesa delle parti, non si fa riferimento in alcun modo alla riproposizione della questione dinanzi al giudice del gravame; in conclusione, va dichiarato infondato il primo motivo di ricorso, inammissibili il secondo, quarto e quinto, e accolto il terzo motivo, con cassazione della sentenza impugnata sul motivo accolto e rinvio alla Commissione tributaria regionale anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte: accoglie il terzo motivo di ricorso, infondato il primo, inammissibili il secondo, quarto e quinto, cassa la sentenza impugnata sul motivo accolto e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio. Deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta sezione civile, addì 17 dicembre 2018.

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