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In caso di accesso non grava sul contribuente la c.d. “prova di resistenza”. Ricorso accolto. Avviso completamente nullo per violazione del termine di cui all’art. 12 dello Statuto dei diritti del contribuente. Featured

Scritto da Avv. Federico Pau
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Estratto: “In conclusione, ai fini delle imposte armonizzate, la prova di resistenza non si deve applicare nelle tre ipotesi in cui nei confronti del contribuente sia stato effettuato un accesso, un'ispezione o una verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività, dovendosi applicare solo nel caso di verifiche a tavolino. Ne consegue in definitiva che l'art. 12, comma 7, della I. n. 212 del 2000 effettua, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività, una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio già operata dal legislatore, attraverso la previsione espressa di una nullità per mancato rispetto del termine dilatorio che già, a monte, ingloba la «prova di resistenza», sia con riferimento ai tributi armonizzati che in ordine a quelli non armonizzati (non effettuando la norma alcuna distinzione in merito alle conseguenze sanzionatorie)”.

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Corte di Cassazione, Sez. 5

Sentenza n. 22644 dell’11 settembre 2019

FATTI DI CAUSA

1. U. ricorre, con tre motivi, per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe di accoglimento dell'appello proposto dall'Amministrazione finanziaria avverso la sentenza dalla CTP di Roma (n. 352/13/2009). Quest'ultima, a sua volta, di accoglimento dell'impugnazione proposta dal contribuente avverso avviso di accertamento IVA (n. XXX) relativo all'esercizio 1999, emesso per recupero di IVA indebitamente detratta per euro 362.707,16 (oltre sanzioni ed interessi).

2. La complessità della ricostruzione dei fatti di causa ne impone una puntuale loro sintesi, nei termini che seguono (per quanto emerge dalla sentenza impugnata oltre che dal ricorso, dal controricorso e dagli atti e documenti in essi riportati e da essi richiamati nonché depositati).

2.1. La U. (contribuente attuale ricorrente, di seguito anche: «U. LTD»), con sede legale in Inghilterra e rappresentante fiscale in Italia, è parte del gruppo multinazionale U. che si occupa, in via principale, del controllo, della gestione e della logistica delle catene produttive in molteplici settori. Per quanto rileva nel presente processo, alla contribuente è affidata l'attività concernente la logistica di prodotti del settore auto e la consulenza inerente la ricerca della migliore efficienza produttiva, compresi studi e realizzazione di progetti relativi alla massimazione delle disponibilità dei ricambi, alla riduzione dei costi di magazzino, alla gestione dei depositi ed all'incremento dell'efficienza della catena valore. Con rifermento all'attività di cui innanzi U. LTD concluse un accordo con una società di diritto inglese del Gruppo J. (di seguito: «J. UK»), esteso anche all'Italia in forza di accordo con la J. Italia s.p.a., avente ad oggetto un servizio integrale di analisi, studio, raccolta, immagazzinamento e consegna di parti di ricambio per autovetture da sette depositi a circa 700 rivenditori/concessionari J. Tale servizio prevedeva la gestione di magazzino, la distribuzione multicanale dei pezzi di ricambio, la creazione ed il controllo del sistema informatico relativo all'attività di logistica, la gestione delle forniture ai clienti della stessa J. UK, oltre a vari servizi tecnici e commerciali. Per l'espletamento della detta attività, con riferimento ai concessionari italiani, la contribuente concluse con J. Italia s.p.a. un accordo (lettere 22 dicembre 1995 e 19 febbraio 1996), avente ad oggetto attività di supporto (nonché di controllo ed ottimizzazione delle attività logistiche), da parte della J. Italia s.p.a. ed in ragione dell'osservatorio privilegiato di essa nell'ambito delle relazioni con la rete dei concessionari, della gestione della politiche commerciali, del marketing, dei prezzi e delle performance di distribuzione. La contribuente, con sede legale in Inghilterra, nominò in Italia un rappresentante fiscale che sin dal 12 gennaio 1996 aveva comunicato di esercitare l'attività di «altri servizi connessi all'informatica» senza avvalersi di uffici, magazzini o locali e di esercitare l'attività presso la propria residenza (come emerge in maniera non controversa dal controricorso). In esecuzione dell'accordo da ultimo citato J. Italia s.p.a. emise nei confronti della U. LTD fatture comprensive dell'IVA, ritenendole operazioni imponibili ex art. 7, comma 3 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Ciò quindi in applicazione del principio di territorialità dell'imposta di cui al citato art. 7 (nella formulazione ratione temporis applicabile nella versione antecedente alle consistenti modifiche apportate dall'art. 1, comma 1, lett. b), del d.lgs. 11 febbraio 2010, n. 18) per prestazioni di servizi generici. Queste ultime, in forza del detto comma 3, per il contribuente, avrebbero dovuto considerarsi effettuate nel territorio dello Stato in quanto emesse da soggetto avente domicilio e residenza in Italia, la J. Italia s.p.a., e, quindi non rientranti in taluna delle ipotesi derogatorie di cui al successivo comma 4 del medesimo art. 7. La contribuente, tramite il proprio rappresentante fiscale in Italia, chiese il rimborso dell'IVA di cui alle dette fatture, non avendo effettuato in Italia operazioni attive comportanti un suo debito d'IVA nei confronti dell'Amministrazione finanziaria. In forza della richiesta di cui innanzi, l'A.E. effettuò nei confronti della U. LTD un'ispezione contabile e documentale, eseguita mediante accesso nei locali destinati all'esercizio dell'attività, a fini IVA, relativamente a diverse annualità, tra le quali il 1999. L'accertamento fu condotto al fine di verificare la sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi della legittimità dell'imposizione a fini IVA delle operazioni di cui alle fatture emesse dalla J. Italia s.p.a. e, quindi, della rimborsabilità dell'imposta alla contribuente, e si concluse con PVC del 3 dicembre 2007. Dalla detta attività emerse, in particolare, l'assenza di personale dipendente, di beni strumentali, di conti correnti in Italia, di ricevute di pagamento delle fatture di acquisto e che, quindi (anche) per il 1999 l'unica attività svolta dalla U. LTD, con rappresentante fiscale in Italia, aveva avuto ad oggetto solo la gestione amministrativa della tenuta della contabilità relativa alle transazioni commerciali tra la U. e la J. Italia s.p.a., in forza del supporto da quest'ultima fornito in ragione dei citati accordi commerciali. Si trattava di fatture aventi la dizione «servizi di consulenza come da contratto del 22/12/1995», senza riferimenti alle qualità ed alle quantità delle operazioni (beni o servizi prestati) ed in assenza di altra documentazione a supporto delle stesse tale da rendere possibile la qualificazione e quantificazione delle operazioni. La contribuente, quindi, non avendo effettuato alcuna operazione attiva per il 1999, aveva annotato esclusivamente le fatture ricevute dalla J. Italia s.p.a. e le liquidazioni IVA erano pertanto risultate tutte a credito (con riporto anche del credito d'imposta dell'anno precedente). Per l'Amministrazione finanziaria si trattava quindi di attività gestita direttamente dalla casa madre inglese (la U. LTD) e non dal rappresentante fiscale in Italia, il quale invece si era limitato, di fatto, a recuperare l’IVA versata con riferimento alle citate fatture. In ragione anche del metodo di commisurazione del corrispettivo, in parte a provvigione e in parte fissa, l'amministrazione ritenne le operazioni non imponibili ex art. 40, comma 8, del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, conv., con modif., dalla I. 29 ottobre 1993, n. 427 (comma abrogato dall'art. 24, comma 7, lett. b, n. 2, della I. 7 luglio 2009, n. 88, con decorrenza dal giorno successivo a quello di pubblicazione della legge stessa, salvo che per le operazioni a decorrere dal primo gennaio 2008 effettuate con applicazione della disciplina previgente). L'A.E. argomentò, quindi, in applicazione della disciplina inerente la territorialità delle operazioni intracomunitarie e considerando quelle in esame, ex art. 40, comma 8, cit., prestazioni di intermediazione rese da un soggetto con sede in Italia (la J. Italia s.p.a.) ad un soggetto passivo d'imposta intracomunitario (la U. LTD), pertanto non imponibili ai fini IVA (con conseguente non rimborsabilità e non detraibilità dell'IVA pagata). In ragione della parte fissa del corrispettivo (per collaborazione della J. Italia s.p.a. nella fornitura di dati necessari alla U. LTD per l'ottimizzazione dell'attività logistico-distributiva), l'amministrazione ritenne invece la non imponibilità delle operazioni ai sensi dell'art. 7, comma 4, del d.P.R. n. 633 del 1972 (nella sua formulazione ratione temporis applicabile), rilevando, ai fini della determinazione territoriale dell'imposta il domicilio dell'utilizzatore, nella specie non presente in Italia. 3. L'avviso di accertamento fu impugnato innanzi al Giudice tributario da U. LTD che dedusse, per quanto rileva nel presente processo, la nullità dell'atto impositivo, ex art. 12 della I. 27 luglio 2000, n. 212, in quanto emesso in violazione del termine dilatorio di sessanta giorni, decorrenti dal rilascio del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, ed in assenza di particolare e motivata urgenza (prospettata dall'Amministrazione finanziaria solo in forza dell'imminenza del termine decadenziale per l'adozione dell'atto). Nel merito dell'accertamento, la contribuente dedusse l'erroneità dell'operato dell'Amministrazione finanziaria nel non aver considerato le operazioni di cui alle fatture imponibili ai fini IVA, ex art. 7, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 (nella formulazione antecedente alla sua sostituzione ad opera dell'art. 1, comma 1, lett. b, del d.lgs. 11 febbraio 2010, n. 18, ratione temporis applicabile), in quanto aventi ad oggetto servizi resi da soggetto con domicilio nel territorio dello Stato (J. Italia s.p.a.).

4. la CTP di Roma, con sentenza n. 352/13/2009, annullò l'atto impositivo per violazione del contraddittorio endoprocedimentale, in particolare per il mancato rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni previsto dall'art. 12, comma 7, della I. n. 212 del 2000 (senza entrare nel merito della fondatezza delle doglianze inerenti la correttezza dell'atto impositivo circa la non imponibilità ai fini IVA delle operazioni).

5. Appellata dall'Amministrazione finanziaria, la sentenza di primo grado venne riformata dalla CTR Roma che, con sentenza n. 12/10/2011 (oggetto di attuale ricorso per cassazione), ritenne non nullo l'avviso di accertamento, nonostante il mancato rispetto del termine dilatorio di cui al citato art. 12, comma 7, in forza di tre distinte rationes decidendi. Essa, in primo luogo, ritenne la detta sanzione non operante nella specie in quanto non esplicitamente prevista dall'ordinamento giuridico e, comunque, considerò sufficientemente motivata l'urgenza, in forza dell'imminente scadenza del termine decadenziale per l'adozione dell'atto. A quanto innanzi il Giudice di secondo grado, dichiarando di fare proprie tesi dottrinali ed orientamenti giurisprudenziali, aggiunse sostanzialmente che, per l'assenza di prospettazione, da parte del contribuente, di ragioni di merito tali da denunciare un'ingiustizia sostanziale derivante dalla violazione del contraddittorio endoprocedimentale, comunque la violazione in esame avrebbe implicato un mero «errore procedurale». Quest'ultimo, a sua volta, avrebbe implicato «un vizio meramente formale e perciò irrilevante perché, di fatto,» non incidente «sulla legittimità sostanziale dell'atto e quindi sulla fondatezza della pretesa impositiva». Nel merito dell'accertamento, la Corte territoriale confermò l'atto impositivo, ricordando l'assenza di domicilio e residenza in Italia di U. LTD, avente mero rappresentante fiscale in Italia (circostanza non controversa ed anzi confermata da tutte le parti processuali anche in sede di legittimità). Il Giudice di merito ritenne altresì accertato che, per quanto di rilievo nella fattispecie in esame, l'unica attività svolta da U., con rappresentante fiscale in Italia, aveva avuto ad oggetto solo la gestione amministrativa della tenuta della contabilità relativa alle transazioni commerciali tra la U. LTD e la J. Italia s.p.a., in forza del supporto da quest'ultima fornito in ragione dei citati accordi commerciali. Trattavasi, quindi, di attività gestita direttamente dalla casa madre inglese (la U. LTD) e non dal rappresentante fiscale in Italia, il quale invece si era «limitato, di fatto, a recuperare VIVA» versata con riferimento alle citate fatture, configurandosi, l'attività della J. Italia s.p.a., come «esercizio di distribuzione senza tuttavia sopportare il rischio di magazzino». Alla luce anche del corrispettivo riconosciuto alla J. Italia s.p.a., costituito in minima parte da un contributo fisso e per la maggior parte da una percentuale (provvigione sulle vendite), la CTR concluse infine che le fatture in esame fossero state emesse in forza di «attività di intermediazione resa da un soggetto con sede in Italia ad un soggetto passivo d'imposta intracomunitario» (la U. appunto non residente) «ed identificato ai fini IVA in un altro Stato UE». Sicché, le dette operazioni, in quanto di intermediazione, non sarebbero dovute essere assoggettate ad IVA (con la conseguente impossibilità di recuperare e detrarre quella invece pagata), in applicazione della disciplina inerente la territorialità delle operazioni intracomunitarie di cui all'art. 40, comma 8, del d.l. n. 331 del 1993 (comma abrogato dall'art. 24, comma 7, lett. b, n. 2, della I. 7 luglio 2009, n. 88, con decorrenza dal giorno successivo a quello di pubblicazione della legge stessa, salvo che per le operazioni a decorrere dal primo gennaio 2008 effettuate con applicazione della disciplina previgente).

6. Contro la sentenza d'appello la contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi e sostenuto da memoria, con la quale è stata dedotta l'efficacia espansiva del giudicato esterno costituito dalla sentenza n. 581/2000 emessa dalla CTP di Roma il 24 novembre 2000 e passata in giudicato il 9 gennaio 2002 (che contestualmente produce). Con la medesima memoria, poi, è stata comunque chiesta l'applicazione del nuovo regime sanzionatorio di cui agli artt. 6, comma 5, del d.lgs. n. 471 del 1997 (per illegittima detrazione dell'imposta) e 5 comma 6, dello stesso decreto (per dichiarazione con imposta inferiore a quella dovuta). L'A.E. si è difesa con controricorso, con il quale ha dedotto l'infondatezza del motivo n. 1 e l'inammissibilità oltre che l'infondatezza dei motivi nn. 2 e 3 del ricorso principale. In sede di discussione la parti hanno infine concluso come indicato in epigrafe.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente, deve trattarsi la questione inerente l'efficacia espansiva del giudicato esterno (dedotta dal ricorrente con la memoria) costituito dalla (prodotta) sentenza n. 581/2000 emessa, tra le spesse parti, dalla CTP di Roma il 24 novembre 2000 e passata in giudicato il 9 gennaio 2002 (in quanto non impugnata). 1.1. La questione in oggetto è inammissibile in quanto dedotta per la prima volta con le memorie depositate dal ricorrente per l'odierna udienza nonché solo genericamente paventata con il ricorso, pur inerendo sentenza passata in giudicato nel 2002, cioè antecedentemente ai giudizi di merito e comunque prima del giudizio di secondo grado (inerente l'appello avverso sentenza emessa dalla CTP nel 2009). Il giudicato esterno, la cui efficacia espansiva nel processo tributario opera nei casi in cui esso sia in grado di incidere su elementi riguardanti più periodi d'imposta, può essere difatti dedotto e provato anche per la prima volta in sede di legittimità purché formatosi dopo la conclusione del giudizio di merito o dopo il deposito del ricorso per cassazione, differentemente da quanto avvenuto nella fattispecie (ex plurimis, Cass. sez. 5, 18/10/2017, n. 24531, Rv. 645913-01, nonché, in precedenza, Cass. sez. 5, 07/05/2008, n. 11112, Rv. 603135-01). Nel caso in cui il giudicato esterno si sia invece formato nel corso del giudizio di secondo grado e la sua esistenza non sia stata eccepita, nell'ambito dello stesso, dalla parte interessata, la sentenza di appello che si sia pronunciata in difformità da tale giudicato è impugnabile con il ricorso per revocazione e non con quello per cassazione (Cass. Sez. U., 20/10/2010, n. 21493, Rv. 614451-01, e le successive conformi, tra le quali, ex plurimis, Cass. sez. 5, 04/11/2015, n. 22506, Rv. 637074-01, e Cass. sez. 5, 03/11/2018, n. 22177, Rv. 641881-01). A nulla rileva peraltro, in senso contrario e nella fattispecie concreta, la rilevabilità d'ufficio del giudicato esterno, al pari di quello interno, in sede di legittimità, necessitando comunque che esso emerga da atti prodotti nel giudizio di merito ovvero che si sia formato successivamente alla sentenza impugnata. In tal caso, infatti, la produzione del documento che lo attesta non trova ostacolo nel divieto posto dall'art. 372 c.p.c., che è limitato ai documenti formatisi nel corso del giudizio di merito, ed è, invece, operante ove la parte (come nella specie) invochi l'efficacia di giudicato di una pronuncia anteriore a quella impugnata, che non sia stata prodotta nei precedenti gradi del processo (in tal senso, di recente, Cass. sez. 2, 22/01/2018, 1534, Rv. 647079-01; si veda altresì Cass. Sez. U., 16/06/2006, n. 13916, Rv. 589695-01).

2. Con il motivo n. 1, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., si deduce violazione e falsa applicazione dell' art. 12, comma 7, I. n. 212 del 2000.

In sostanza il ricorrente si duole dell'erronea interpretazione data dal Giudice di merito della norma di cui innanzi, avendo la sentenza impugnata ritenuto esclusa la sanzione della nullità dell'atto impositivo per l'ipotesi di violazione del termine dilatorio di sessanta giorni per la sua emanazione (di cui al citato comma 7), e di aver ritenuto integrante ipotesi di particolare e motivata urgenza, tale da legittimare il non rispetto del detto termine, la mera imminente decadenza dell'Amministrazione finanziaria dell'adozione dell'atto.

Con il motivo n. 2, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., si deduce violazione e falsa applicazione delle norme di cui all'art. 1362 e ss. c.c., con riferimento al contratto concluso tra contribuente e J. Italia s.p.a., e conseguente violazione e falsa applicazione dell'art. 7, comma 3, del d.P.R. 633 del 1972. Il ricorrente si duole dell'interpretazione data dal Giudice di merito al detto contratto, come avente ad oggetto non prestazione di servizi generici bensì attività di intermediazione, con conseguente errata applicazione della disciplina di cui all'art. 40, comma 8, del d.l. n. 331 del 1993, ratione temporis applicabile, in materia di territorialità delle operazioni intracomunitarie. Ciò in luogo della corretta applicazione di quella prevista dall'art. 7, comma 3, del d.P.R.n. 633 del 1972, ratione temporis applicabile. Tale violazione e falsa applicazione di legge avrebbero poi, a detta del ricorrente, implicato il ritenere l'operazione non assoggettata ad IVA (con conseguente non rimborsabilità né detraibilità di quella pagata).

Con il motivo n. 3, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., si deduce contraddittorietà ed in subordine omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in particolare con riferimento alla parte motiva relativa all'accertamento della tipologia di attività di cui alle fatture (in termini di attività di intermediazione).

3. Il motivo n. 1 del ricorso è fondato, con assorbimento degli altri motivi di ricorso, per le ragioni e nei termini di seguito evidenziati. 3.1. La questione inerisce l'interpretazione dell'art. 12, comma 7, della I. n. 212 del 2000 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente), ed in particolare se necessiti la c.d. «prova di resistenza» da parte del contribuente al fine di ritenere illegittimo il provvedimento impositivo, in materia di tributi armonizzati (nei quali rientra VIVA), emesso all'esito di accessi ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all'esercizio dell'attività. Cass. Sez. U., 29/07/2013, n. 18184 v. 627474-01 ha chiarito che l'inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l'emanazione dell'avviso di accertamento determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l'illegittimità dell'atto impositivo emesso ante tempus. Ciò in quanto trattasi di termine posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. Il vizio invalidante, come chiarito dalle Sezioni Unite, non consiste nella mera omessa enunciazione nell'atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l'emissione anticipata, bensì nell'effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall'osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all'epoca di tale emissione, deve essere provata dall'ufficio. Successivamente, Cass. Sez. U., 09/12/2015, n. 24823 ha chiarito che l'Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l'invalidità dell'atto, purché il contribuente abbia assolto all'onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un'opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi «armonizzati», mentre, per quelli «non armonizzati»", non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito. Non sussiste, poi, alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini Irpeg ed Irap, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale, vertendosi in ambito di indagini cd. «a tavolino». Premesso il quadro normativo di riferimento, in merito all'evidenziata questione di diritto in esame, il collegio ritiene di dare continuità ai principi di recente sanciti da questa stessa Sezione (Cass. sez. 5, 15/01/2019, n. 701, Rv. 652456-01, e Cass. sez. 5, 15/01/2019, n. 702, in motivazione), alla luce di una lettura dei citati approdi delle Sezioni Unite nel quadro costituzionale ed eurounitario di riferimento e, quindi, in applicazione dei due principi cardine del diritto comunitario regolanti il diritto fondamentale al contraddittorio endoprocedimentale. Tali sono il principio di equivalenza, in virtù del quale le modalità previste per l'applicazione del tributo armonizzato non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano analoghi procedimenti amministrativi per tributi di natura interna, ed il principio di effettività, non dovendo la disciplina nazionale rendere in concreto impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico dell'Unione, derivandone che il contribuente deve essere posto nelle condizioni di esercitare il contraddittorio (si vedano: CGUE 18 dicembre 2008 C-349/07 Sopropé - Organizagòes de Calgado Lda contro Fazenda Pública; CGUE 3 luglio 2014 C-129 e 130/13 Kamino International Logistics BV e Datema Hellmann Worldwide Logistics BV contro Staatssecretaris van Financién, § 75; CGUE 8 marzo 2017, Euro Park Service C-14/16 § 36, in materia di rimborsi; CGUE 9 novembre 2017, Ispas C-298/16 §§ 30,31, resa proprio sull'IVA; CGUE 20 dicembre 2017, Preqù Italia srl C-276/16, § 45 sul diritto al contraddittorio in materia doganale). Orbene, proprio dando continuità ai principi giurisprudenziali sopra esposti, ai fini dell'interpretazione dell'art. 12, comma 7, in oggetto questa Corte ha osservato, in primo luogo, che la norma non a caso non distingue tra tributi armonizzati e non. In via generale, infatti, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività, è già stata operata dal legislatore una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio, attraverso la comminatoria espressa di nullità dell'atto impositivo nel caso di mancato rispetto del termine dilatorio di 60 giorni per consentire al contribuente l'interlocuzione con l'Amministrazione finanziaria, a far data dalla conclusione delle operazioni di controllo. Tale disciplina nazionale, quindi, già a monte, ingloba la «prova di resistenza», nel pieno rispetto della giurisprudenza della CGUE (Kamino, cit., § 80; Sopropè, cit., § 37). Siffatta interpretazione è al tempo stesso rispettosa anche dei principi generali dell'ordinamento giuridico nazionale civile, amministrativo e tributario, secondo cui la regola della strumentalità delle forme, ai fini del rispetto del contradditorio, viene meno in presenza di un'espressa sanzione di nullità comminata dalla legge per la violazione in questione. In secondo luogo, coerentemente con quanto precede, è stato da questa Corte evidenziato che l'operatività della «prova di resistenza», di cui alle citate Sezioni Unite del 2015, non può che essere circoscritta al caso di assenza di un'espressa previsione del legislatore nazionale di nullità per violazione del contraddittorio. Solo in assenza di un'espressa sanzione di nullità introdotta dal legislatore per il caso di violazione del contraddittorio, vi può difatti essere spazio per il giudice affinché possa operare una valutazione ex post, caso per caso, sull'intervenuto rispetto del contraddittorio o meno. A quanto innanzi si è aggiunta, quale ulteriore logica conseguenza, che, anche per i tributi armonizzati, scatta la prova di resistenza ai fini del contraddittorio endoprocedimentale nel solo caso in cui la normativa interna non preveda la sanzione della nullità. Specularmente, ove il legislatore già preveda tale sanzione non opera il riferimento alla prova di resistenza. In conclusione, ai fini delle imposte armonizzate, la prova di resistenza non si deve applicare nelle tre ipotesi in cui nei confronti del contribuente sia stato effettuato un accesso, un'ispezione o una verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività, dovendosi applicare solo nel caso di verifiche a tavolino. Ne consegue in definitiva che l'art. 12, comma 7, della I. n. 212 del 2000 effettua, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività, una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio già operata dal legislatore, attraverso la previsione espressa di una nullità per mancato rispetto del termine dilatorio che già, a monte, ingloba la «prova di resistenza», sia con riferimento ai tributi armonizzati che in ordine a quelli non armonizzati (non effettuando la norma alcuna distinzione in merito alle conseguenze sanzionatorie). Sicché, anche per i tributi armonizzati, tra i quali, come nella specie, l’IVA, scatta la prova di resistenza, ai fini della verifica del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, solo nel caso di mancata previsione da parte della normativa interna della sanzione della nullità, invece prevista dal citato art. 12, comma 7, per l'ipotesi della violazione del termine dilatorio.

3.2. L'applicazione alla fattispecie concreta dei principi di cui innanzi implica l'accoglimento del motivo di ricorso, trattandosi di provvedimento impositivo, avviso di accertamento per recupero di IVA indebitamente detratta, emesso in violazione del termine dilatorio di cui all'art. 12, comma 7, della I. n. 212 del 2000, come pacificamente ammesso dalle parti processuali oltre che emergente dalla stessa sentenza impugnata. Nella specie, difatti, non rileva, per quanto innanzi argomentato, l'omessa prova di resistenza da parte del contribuente, trattandosi di illegittimità derivante dalla detta citata norma, ed in assenza di valide ragioni d'urgenza fondanti il non rispetto del termine dilatorio. Sotto tale ultimo profilo, in particolare, l'A.E. a fondamento della violazione del termine dilatorio ha dedotto, anche in sede processuale, l'imminenza della scadenza del termine decadenziale. La CTR non correttamente ha poi ritenuto tale circostanza valida ragione d'urgenza ai sensi del citato art. 12, in assenza di valide ragioni tali da giustificare il perché l'Amministrazione abbia esercitato il potere nell'imminenza della scadenza del termine, argomentabili da elementi di fatto che esulino dalla sfera dell'Ente impositore e fuoriescano dalla sua diretta responsabilità (in tal senso, ex plurimis: Cass. sez. 6-5, 10/04/2018, n. 6416, Rv. 647732-01; Cass. sez. 5, 16/03/2016, n. 5149, Rv. 639141-01; Cass. sez. 6-5, 09/11/2015, n. 22786, Rv. 637204-01; Cass. sez. 5, 05/12/2014, n. 25759, Rv. 633713-01).

4. In conclusione, deve essere accolto il motivo n. 1 del ricorso, con assorbimento nella relativa decisione degli altri motivi di ricorso, e cassata la sentenza impugnata, nei limiti del motivo accolto, con decisione nel merito, non essendovi circostanze fattuali da accertare, e conseguente accoglimento del ricorso introduttivo del contribuente. Devono compensarsi non solo le spese del presente giudizio di legittimità ma anche quelle dei precedenti gradi di merito, in forza della descritta evoluzione (anche temporale) del quadro interpretativo dell'art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000.

P.Q.M.

accoglie il motivo n. 1 del ricorso, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata, nei limiti del motivo accolto, e decidendo nel merito accoglie il ricorso introduttivo del contribuente; e dichiara compensate le spese processuali inerenti il presente giudizio di legittimità ed i precedenti gradi di merito. Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2018 Il Presidente

 

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