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Analisi casi processuali. Estratto della memoria depositata in appello, in esito al quale abbiamo ottenuto, da parte della CTR, la riforma integrale di una sentenza di primo grado, e l’annullamento degli avvisi di accertamento.

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Di seguito analizziamo un caso processuale, non dalla consueta prospettiva dell’analisi della sentenza, ma dalla prospettiva delle argomentazioni da noi sviluppate per ottenere, in esito all’appello, la riforma della sentenza di primo grado, argomentazioni accolte dalla sentenza di secondo grado, che ha ribaltato l’esito, ed accolto le ragioni del contribuente, con annullamento degli avvisi di accertamento.

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“1 – VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 39 D.P.R. N. 600/1973. VIOLAZIONE DEL DIVIETO DI PRESUNZIONI FONDATE SU PRESUNZIONI. VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 53 E 24 COST.

La sentenza della Commissione Tributaria Provinciale appare erronea (nonché manchevole sotto il profilo motivazionale) nella parte in cui conferma l’applicazione della metodologia induttiva di cui all’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973.

Infatti, i Giudici di prime cure – sostanzialmente ratificando l’operato dell’Amministrazione Finanziaria – propongono una lettura contra legem del sopraccitato art. 39 del D.P.R. n. 600/1973, che si risolve nell’attribuzione, all’Ufficio Impositore, del potere di procedere ad una ricostruzione induttiva del reddito del contribuente sulla base di un mero “sospetto di evasione”.

In altri termini, nel caso di specie, si procede alla ricostruzione del reddito del contribuente mediante un meccanismo di accertamento – da ritenersi irrituale – che si traduce:

A) nella violazione del dettato di cui all’art. 39 D.P.R. n. 600/1973 sotto 2 profili:

A.1) per l’inesistenza dei presupposti applicativi della disposizione di cui trattasi, in quanto non è accertata né provata l’irregolarità né la falsità o incompletezza (né, a maggior ragione, l’inattendibilità) delle scritture contabili, le quali, al contrario, risultano regolarmente tenute;

A.2) per il travisamento del meccanismo operativo del metodo di accertamento previsto dall’art. 39 D.P.R. n. 600/1973 posto che:

- non sono stati acclarati né dimostrati i fatti noti alla base del ragionamento presuntivo seguito dall’Amministrazione Finanziaria;

- non sono adoperate presunzioni dotate dei necessari requisiti di gravità, precisione e concordanza;

- al fine del ricalcolo del reddito del contribuente si adoperano criteri e metodologie contrarie alle massime di esperienza, alla logica e alla ragionevolezza, vizi che si traducono nella contraddittorietà della motivazione della sentenza di primo grado che li rende propri;

B) nella violazione del divieto di presunzioni fondate su presunzioni (riassunto nel noto brocardo “praesumptum de praesumpto non admittitur”);

C) nella negazione dei principi di capacità contributiva (art. 53 Cost.) e di difesa (art. 24 Cost.).

Infine, la sentenza impugnata si mostra erronea nella parte in cui non riconosce che – nonostante l’omessa integrazione dei presupposti necessari ai fini dell’inversione dell’onere probatorio – il contribuente ha fornito egualmente la prova contraria richiesta dalla legge al fine di superare le contestazioni dell’Amministrazione Finanziaria.

1.1. Violazione e falsa applicazione dell’art. 39 D.P.R. n. 600/1973: utilizzo di una metodologia di accertamento irrituale.

Innanzitutto, si rende utile ricostruire il modus operandi dell’Amministrazione Finanziaria – legittimato dalla sentenza di secondo grado – al fine di evidenziarne l’illegittimità.

L’Ufficio procede nei termini che seguono: rendendo punto di partenza delle proprie inferenze il mero “sospetto” che siano state emesse fatture false, siano state effettuate cessioni “in nero”, sia stata omessa la contabilizzazione di costi e ricavi e siano stati effettuati acquisti senza fattura - tutte deduzioni arbitrarie non accertate (né dimostrate in sede processuale) – giunge, attraverso un dubbio ragionamento presuntivo, a disconoscere le risultanze delle scritture contabili, per poi ricostruire i ricavi della Società secondo criteri di calcolo palesemente contrastanti con la logica e la ragionevolezza.

Anche i Giudici di primo grado, valorizzano gli elementi arbitrariamente dedotti dai verificatori, sopra menzionati (ossia il mero “sospetto” che siano state emesse fatture false, che siano state effettuate cessioni “in nero”, che sia stata omessa la contabilizzazione di costi e ricavi e che siano stati effettuati acquisti senza fattura), al fine di legittimare l’applicazione dello strumento dell’accertamento induttivo.

Nondimeno, sotto un profilo tecnico-giuridico, l’interpretazione offerta in sentenza si palesa ex se ancor più limpidamente erronea.

Infatti, si legge nella statuizione impugnata quanto segue: “gli accertatori della Guardia di Finanza hanno rilevato quelle presunzioni gravi, precise e concordanti richieste dalla norma per l’emissione di un accertamento induttivo” (cfr. pagina 3). Pertanto, secondo il ragionamento ivi contenuto – senz’altro censurabile per violazione di legge nonché contraddittorietà – il presupposto dell’accertamento induttivo parrebbe essere il mero rilievo di presunzioni gravi, precise e concordanti.

Orbene, nulla di più erroneo.

In realtà, senza pretesa alcuna di lumeggiare l’argomento, di cui l’On.le Collegio adito ha piena cognizione, si propone di seguito una ricostruzione della metodologia accertativa in commento, con lo scopo di evidenziarne le differenze rispetto a quella – come si vedrà, irrituale e illegittima – di cui si è fatto uso nel caso de quo.

Il meccanismo accertativo previsto dall’art. 39, comma 1, lettera d), D.P.R. n. 600/1973 (c.d. accertamento analitico-induttivo) così come quello di cui al secondo comma della medesima disposizione (c.d. accertamento induttivo tout court) opera secondo una dinamica plurifasica:

A) Accertamento e dimostrazione dell’irregolare tenuta della contabilità.

In una prima fase, sull’Ufficio ricade l’onere di accertare con certezza l’irregolarità delle scritture contabili, dimostrando, altresì, seppur per mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti, l’incompletezza, la falsità e l’inesattezza degli elementi indicati all’interno delle stesse (ovvero l’inattendibilità di queste nel loro complesso ai sensi del secondo comma dell’art. 39 D.P.R. n. 600/1973): solo tale dimostrazione può permettere di prescindere, anche solo in parte, dalle risultanze delle scritture contabili.

Orbene, sul punto si rileva che la verifica e la prova dell’irregolarità della contabilità costituisce condizione per la legittima attivazione della procedura di accertamento induttivo (trattasi di principio in più occasioni affermato dalla Suprema Corte, finanche a Sezioni Unite: ex multis Cass. SS.UU. n. 26635/09).

Non si comprende quali siano, nel caso de quo, le acclarate irregolarità, nonché le incompletezze e falsità degli elementi indicati all’interno della contabilità che legittimerebbero l’Ufficio a procedere oltre.

L’unica contestazione che parrebbe essere conferente con un tentativo di disconoscimento della regolarità delle scritture contabili è quella relativa alla emissione di fatture false.

La consapevolezza dell’insufficienza di elementi atti a contestare la correttezza della contabilità – che risulta regolarmente tenuta – è, anzi, probabilmente il motivo principale che spinge l’Amministrazione Finanziaria a soffermarsi oltremodo su tale contestazione, sebbene la stessa non abbia alcuna rilevanza ai fini della ricostruzione di un diverso reddito imponibile, posto che – come espressamente riconosciuto dall’Ufficio –  avendo la società XXX S.p.A. contabilizzato dette fatture di vendita tra i ricavi di esercizio ed inserite tra le operazioni attive delle dichiarazioni l'IVA relativa sia stata comunque assolta”.

Ad ogni modo, trattasi di una contestazione che non ha trovato alcun tipo di riscontro, fondata su meri ragionamenti presuntivi, e sicuramente insufficiente a dimostrare presunte irregolarità né tanto meno incompletezze o falsità contabili.

E ancora, se, per assurdo, sussistessero tali incompletezze e falsità, l’Amministrazione Finanziaria non ne avrebbe fornito prova alcuna. È, infatti, sull’Ufficio che, per costante giurisprudenza, ricade l’onere di dimostrare la sussistenza, in concreto, dei presupposti applicativi della norma in commento.

In ogni caso, si evidenzia che non sarebbe sufficiente provare lievi inesattezze o irregolarità marginali, dovendo comunque essere presenti, finanche in caso di accertamento c.d. analitico-induttivo, irregolarità di gravità tale da legittimare il rinnego – seppur parziale – delle risultanze contabili.

Il principio assumerebbe particolare rilevanza nel caso di specie ove l’Amministrazione Finanziaria volesse sostenere che le presunte irregolarità relative alle cessioni all’esportazione, che tra l’altro non avrebbero risvolti tributari di rilievo (le stesse hanno, infatti, dato comunque luogo a ricavi regolarmente annotati nelle scritture contabili della Società che hanno regolarmente concorso alla formazione del reddito imponibile) e la cui insussistenza è stata in larga parte provata dal contribuente (doc. XX e doc. XX depositati in primo grado), possano inficiare, anche solamente in parte, le risultanze contabili.

Si osservi, inoltre, che la formale regolarità delle scritture contabili, nel caso de quo, è riconosciuta dagli stessi Organi Accertatori (pag. XX PVC: “pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, sia riscontrabile un comportamento del contribuente confliggente con i criteri della ragionevolezza”).

Si evidenzia come, in punto di diritto, ciò è sufficiente al fine di impedire l’applicazione della disposizione di cui trattasi nonché di dimostrare la natura contra legem degli accertamenti di cui si discute, che, in riforma della sentenza impugnata, dovranno dichiararsi nulli e comunque inefficaci.

B) Accertamento e dimostrazione della sussistenza dei fatti noti alla base del ragionamento presuntivo.

Fermo quanto retro, seppure l’Ufficio avesse verificato e dimostrato l’irregolarità delle scritture contabili, in una seconda fase, avrebbe dovuto, comunque, accertare con certezza i fatti “noti”, pacificamente riconosciuti e acclarati (cfr. ex multis Cass. n. 7931/1996), su cui solo possono essere assise le presunzioni volte all’accertamento di passività insussistenti o attività non dichiarate, e, per l’effetto, di un diverso reddito imponibile. Tali presunzioni, infatti, non possono certo fondarsi, per principi consolidati, su mere valutazioni.

Si noti, infatti, che la presunzione opera secondo un ragionamento sillogistico che vede trarre fatti (c.d. presunti) da fatti, non solamente possibili o probabili, ma aventi carattere certo e riscontrato, e che mai potrebbero, a loro volta, esser frutto di un’inferenza presuntiva; ciò è confermato, tra l’altro, come si vedrà più diffusamente nel prosieguo, dal divieto di presunzioni di secondo grado.

Nel caso di specie, l’accertamento e la dimostrazione di tali “fatti noti” su cui basare un ragionamento sillogistico è completamente assente.

In particolare, in merito alle principali contestazioni mosse nei confronti della Società, si osserva che l’Amministrazione Finanziaria, al fine di operare secondo diritto e servirsi del metodo accertativo in commento, avrebbe dovuto procedere secondo lo schema che segue.

Quanto alle presunte cessioni c.d. in nero, l’Amministrazione Finanziaria avrebbe dovuto acclarate (e dimostrare processualmente) l’avvenuto passaggio di flussi di denaro a favore della XXX S.p.A. da cui desumere, secondo un ragionamento inferenziale, la sussistenza di operazioni di cessione non fatturate; nulla di tutto ciò è stato verificato – né processualmente provato – essendo tali conseguenze (“fatti ignoti”), state desunte da circostanze e fatti a loro volta del tutto sconosciuti, con la conseguente lesione dei diritti del contribuente, che si vede, di tal guisa, gravato di una c.d. “prova diabolica”.

Come potrebbe, infatti, la XXX S.p.A. fornire la dimostrazione negativa che tali cessioni non sono in realtà avvenute? Un meccanismo di questo tipo sarebbe chiaramente irrispettoso del diritto di difesa ed è, perciò, che il legislatore non lo prevede né lo potrebbe prevedere. Ben diverso sarebbe stato se l’Amministrazione Finanziaria avesse effettivamente dimostrato la presenza di flussi di denaro a favore della Società; in tal caso, infatti, il contribuente vedrebbe rispettati i propri diritti perché potrebbe fornire la dimostrazione che tali flussi economici devono ricondursi a distinte fonti reddituali e non invece a cessioni c.d. in nero; quest’ultimo è il solo meccanismo previsto dal nostro ordinamento in quanto unico congegno rispettoso del diritto di difesa. 

Identiche considerazioni potrebbero essere svolte in relazione alle altre contestazioni.

Si pensi alla circostanza che l’Ufficio disconosce l’ammontare degli sconti – arbitrariamente considerati eccessivi – applicati dalla Società e procede a indicare le maggiori percentuali di ricarica che – a parere dello stesso – sarebbero in concreto state applicate.

Anche in tale ipotesi, non si vede proprio come possa essere stato ratificato dalla sentenza, in questa sede censurata, un meccanismo di accertamento che vede il contribuente sostanzialmente privato di un effettivo e pieno diritto di difesa, per essere gravato della prova “diabolica” consistente nel dimostrare di aver effettivamente praticato tali sconti e proceduto ad effettuare le cessioni ai prezzi indicati.

Anche sotto tale profilo, dunque, la sentenza impugnata si dimostra censurabile nella parte in cui conferma gli avvisi di accertamento impugnati ed andrà, per l’effetto, riformata nel senso di dichiarare la nullità e/o comunque l’invalidità e inefficacia degli stessi.

C) Accertamento e dimostrazione dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.

Orbene, se l’Amministrazione Finanziaria avesse dimostrato la falsità e incompletezza delle scritture contabili, ed essendo, di tal guisa, legittimata a procedere induttivamente, avesse verificato e dato prova di quei fatti noti di cui si è detto, avrebbe potuto estrapolare da tali fatti, per presunzione, i fatti ignoti, posti a base del nuovo ricalcalo dell’Amministrazione Finanziaria, i quali, a loro volta, sarebbero potuti essere utilizzati ove, nel complesso, fossero risultati gravi, precisi, e concordanti.

Il ragionamento è il medesimo anche qualora le verifiche portino a ritenere la contabilità inattendibile nel suo complesso (ciò si deve ritenere possibile solamente in caso di contabilità formalmente irregolare e non nel caso di specie, dato che, come riconosciuto dagli stessi verificatori, la stessa è stata correttamente tenuta). In tal caso, infatti, ferma la necessità di porre in essere tutte le verifiche di cui si è detto – per comodità espositiva indicate alle lettere A) e B) – potrà eventualmente omettersi la sola verifica di gravità, precisione e concordanza delle presunzioni ricavate da fatti, in ogni caso, noti e acclarati.

Il tutto dovrà estrinsecarsi, per costante giurisprudenza, in una motivazione a supporto del nuovo conteggio, che utilizzi criteri logici e di calcolo idonei, ragionevoli, conformi alle massime di esperienza, nonché che renda conto delle peculiari circostanze del caso concreto.

Anche in tale ipotesi, comunque, all’Amministrazione Finanziaria non è sicuramente riconosciuta la facoltà di procedere arbitrariamente, dovendo la stessa operare all’interno di una cornice di limiti volti a garantire il rispetto dei diritti inviolabili riconosciuti al contribuente.

Innanzitutto, non è possibile per l’Ufficio ricollegare al fatto noto, attraverso un ragionamento presuntivo, l’esistenza di un fatto ignorato che è solamente una delle molteplici probabili conseguenze del primo, dovendo trattarsi della sola spiegazione logicamente ipotizzabile. Quanto detto, è ampiamente confermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte (ex pluribus: Cass., n. 4925/1981,), secondo cui “nelle presunzioni semplici di fatto ignoto, cui si risale dal fatto noto, deve profilarsi in base alle regole di comune esperienza, come conseguenza univoca e necessaria, e, quindi, come la sola conseguenza logicamente ipotizzabile, del fatto noto, e non come il risultato di una deduzione solo probabile, la quale non escluda cioè ragionevoli dubbi”.

Orbene, la presenza di spiegazioni alternative perfettamente in linea con una politica commerciale di successo, è stata ampiamente dimostrata dal contribuente (cfr. par. 3 della presente), malgrado si trattasse, invero, di un onere che non poteva dirsi traslato sul contribuente per mancanza dei presupposti necessari al fine dell’inversione dell’onere probatorio.

Di conseguenza, emerge ictu oculi come, nel caso de quo, si sia operato in spregio del principio testé menzionato.

Sul punto si noti che tale canone – che trova molteplici conferme in giurisprudenza (ex multis Cass. n. 4222/1981) – è strettamente correlato alla regola dell’onere probatorio, giacché risulta a carico dell’Amministrazione Finanziaria, che voglia avvalersi dello strumento delle presunzioni, il dovere di dimostrare che l’esistenza del fatto ignoto sia l’unica conseguenza logica di premesse certe ed inequivocabili. Mentre deve escludersi dal novero delle prove il risultato di una deduzione, pur se probabile e non arbitraria, che lasci sopravvivere l’ipotizzabilità di una conclusione diversa ed opposta (cfr. Cass. n. 4222/1981).

***

Solo qualora l’Amministrazione Finanziaria abbia compiuto tutte le verifiche di cui si è detto e assolto il proprio onere probatorio, si potrà richiedere al contribuente la prova dell’erroneità e non verosimiglianza delle presunzioni utilizzate dall’Ufficio (comunque, nel caso di specie, ampiamente fornita: cfr. par. 3).

Alla luce di quanto esposto il Collegio di primo grado avrebbe dovuto dichiarare insanabilmente nulli gli atti in questione, in quanto assisi su una metodologia accertativa irrituale e contra legem.

Il rispetto da parte dell’Amministrazione Finanziaria degli obblighi posti a suo carico, si noti, sarebbe, inoltre, dovuto essere, oltre che dimostrato, estrinsecato all’interno di una congrua motivazione (strumento indispensabile affinché possa dirsi garantito il diritto di difesa del contribuente), anch’essa del tutto assente.

Parimenti, la sentenza in questa sede censurata, non dando conto di alcuno di tali elementi, reca in sé un vizio motivazionale imprescindibile, che comprime e impedisce il pieno esercizio, da parte del contribuente, del proprio diritto di difesa, e che inficia strutturalmente lo stesso provvedimento giurisdizionale di cui trattasi.

Violazione del divieto di presunzioni di secondo grado (c.d. praesumptum de praesumpto non admittitur).

I rilievi di cui sopra trovano ulteriore conferma nel principio del divieto di presunzioni di secondo grado (c.d. praesumptum de praesumpto non admittitur).

Infatti, come in parte già rilevato (cfr. 1.1.), gli accertamenti di cui si discute – sostanzialmente ratificati dalla sentenza impugnata – trovano la propria base principale su ragionamenti meramente inferenziali concatenati.

In particolare, in merito alle principali contestazioni mosse nei confronti della Società, si osservi quanto segue:

a) quanto alle presunte cessioni c.d. in nero, l’Ufficio, in parte sulla base del mero ritrovamento di orologi, nella disponibilità di XXX, simili a quelli ordinariamente ceduti dalla Società (ma che, si osserva, potrebbero essere stati nella disponibilità del XXX per i più svariati motivi, magari perché oggetto di regali, anche risalenti, o perché acquistati da terzi operatori economici), in parte sulla base di non chiare annotazioni riportate su fogli – di cui si contesta espressamente qualsiasi valenza probatoria (cfr. par. 3 lett. l) - non facenti parte della contabilità, desume l’esistenza di flussi di denaro, provenienti da XXX, ed a favore della XXX S.p.A., da cui si desume a sua volta l’esistenza di operazioni di cessione a titolo oneroso non fatturate aventi ad oggetto orologi, per l’effetto, ritenendo sussistenti cessioni c.d. in nero sulla base di presunzioni fondate su presunzioni, peraltro non dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, e che lasciano spazio a deduzioni diverse ed alternative;

b) quanto all’esistenza di un maggior reddito imponibile, l’Amministrazione Finanziaria parrebbe affermare che la Società abbia effettuato cessioni applicando un margine di ricarica maggiore, procedendo, per l’effetto, a ricalcolare il reddito imponibile della stessa sulla base di tale maggiore margine di ricarica. Per arrivare a tale conclusione, parte da un solo dato, ossia la circostanza che i fornitori di XXX raccomandino di effettuare sconti non eccessivi (quanto a XXX, dal 5% al 25% “in determinate situazioni di tensione del mercato”). Orbene, l’Ufficio parrebbe, quindi,  voler desumere da tali mere raccomandazioni (prive di alcun valore cogente per la Società), l’effettuazione di sconti in misura minore rispetto a quelli indicati, desumendo, da tale dato ignoto, la percezione di maggiori somme da parte della Società, ricollegate alle cessioni effettuate dalla stessa, nella misura risultante da una percentuale di ricarico alternativa che, neanche sulla base di un ragionamento presuntivo, può essere desunta da alcun elemento noto o ignoto che sia.

Tale modus operandi è vietato dal nostro ordinamento.

Ciò in quanto il ragionamento presuntivo richiede la certezza della premessa logica da cui sia possibile desumere la certezza di una prova reale. Diversamente si verificherebbe quella fattispecie di presunzioni fondate su presunzioni vietata dalla legge e riassunta nel noto brocardo praesumptum de praesumpto non admittitur.

La ratio del divieto ordinamentale, da sempre affermato in giurisprudenza, di operare presunzioni di secondo grado o a catena, ricavato (in generale) dagli artt. 2727 e 2729 del codice civile e, per la materia tributaria, proprio dall’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973, sul quale l’Amministrazione Finanziaria ha ritenuto di poter fondare gli atti impugnati, risiede nella constatazione che un ragionamento presuntivo di secondo grado non è in grado di fornire la prova di un fatto ignoto con un sufficiente livello di attendibilità.

All’aumentare delle inferenze presuntive fra loro combinate, difatti, consegue una diminuzione del livello di attendibilità del meccanismo presuntivo considerato nel suo complesso: in altre parole, l’utilizzo, in seno ad un ragionamento presuntivo, di più inferenze presuntive, legate fra loro da nessi di consequenzialità, determina un livello complessivo di inattendibilità del ragionamento che è maggiore rispetto a quello dell’inattendibilità delle singole presunzioni in sé e per sé considerate, poiché la combinazione di esse provoca – com’è ovvio – un effetto moltiplicativo delle naturali incertezze che connotano ogni presunzione.

Il tutto ovviamente si traduce in un’esponenziale lesione dei diritti del contribuente che, ad ogni passaggio del ragionamento presuntivo, vede maggiormente compresso il proprio diritto di difesa.

Sul punto, la giurisprudenza è sempre stata chiara nell’escludere l’ammissibilità di ragionamenti presuntivi a catena o di secondo grado, ritenendo che – anche laddove sia ammessa la prova per presunzioni – la validità del procedimento deduttivo sia limitata ad un solo passaggio, essendo vietato trarre presunzione da presunzione e, quindi, desumere dal fatto noto (a) il fatto ignoto (b) e dal fatto (b), divenuto noto attraverso la presunzione, un distinto e ignoto fatto (c) (cfr. Cass. sentt. nn. 21100/2004, 19601/2004, 239/1992, 3546/1990, 3306/1983; nella giurisprudenza di merito si vedano, per la particolare chiarezza, C.T.P. Enna, sent. n. 41/III/2006; C.T.P. Milano, sent. n. 382/XL/1999; C.T.R. Roma, sent. n. 2612/XII/1998; C.T.C., dec. n. 187/1997).

Orbene, anche sotto tale profilo la sentenza impugnata si mostra censurabile nella parte in cui ratifica un meccanismo di accertamento manifestamente assiso su presunzioni di secondo grado.

Violazione del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.). Violazione del principio di difesa (art. 24 Cost.).

Ulteriore conferma di quanto esposto si ritrova, a contrariis, analizzando le conseguenze logico-giuridiche dell’interpretazione proposta dai Giudici di prime cure.

Ammettere il meccanismo di accertamento utilizzato, nell’ipotesi de qua, dall’Amministrazione Finanziaria, e ratificato dalla sentenza di primo grado, implicherebbe la vanificazione del principio della capacità contributiva sancito dall’art. 53 Cost. – ed in particolare dei suoi corollari di “effettività” e “aderenza al fatto concreto” – nonché del principio di difesa.

Nello specifico, quanto alla lesione del dogma cristallizzato nell’art. 53 Cost., avuto riguardo agli strumenti di accertamento presuntivo, la Corte Costituzionale si è espressa nel senso che, il suddetto principio: “risponde all’esigenza che ogni prelievo tributario abbia causa giustificativa in indici concretamente rilevatori di ricchezza, da cui sia razionalmente deducibile l’idoneità soggettiva al pagamento dell’obbligazione tributaria” (Corte Cost. n. 200/1976).

Orbene, nel caso de quo, l’Amministrazione Finanziaria non ha in alcun modo verificato l’effettiva percezione, da parte della Società, di somme di denaro, in conseguenza di presunte cessioni ad un prezzo maggiore di quello indicato (e quindi con margini di ricarica maggiori) ovvero in conseguenza di cessioni c.d. in nero, e, pertanto, risultano completamente assenti quegli indici concretamente rivelatori di ricchezza richiesti dalla legge per procedere ad una diversa ricostruzione del reddito.

Quanto alla violazione dell’art. 24 Cost. occorre evidenziare che il diritto di difesa, per costante giurisprudenza, deve essere effettivo; in altri termini occorre verificare, caso per caso, se il contribuente ha la possibilità di provare, sul piano concreto, la rispondenza al vero dei propri assunti (nel caso di specie, di non aver realizzato il reddito accertato dall’A.F., e cioè di aver effettivamente ceduto i beni ai prezzi indicati, di aver effettivamente praticato gli sconti, di non aver effettuato le presunte cessioni in nero), valutando se, con riferimento a quella singola presunzione ed a quel particolare metodo di accertamento, il contribuente sia in grado di assolvere l’onere della prova (la migliore dottrina tributaristica ha più volte ribadito l’esigenza che il diritto alla difesa sia effettivo, in tal senso, si veda, ex pluribus G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, 145 ss.).

Sul punto si è già sottolineato come, nell’ipotesi de qua, il contribuente, in conseguenza del travisamento del meccanismo operativo del metodo di accertamento di cui all’art. 39 D.P.R. n. 600/1973, si trova gravato di un onere probatorio che – in spregio del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. – non potrebbe mai essere assolto in concreto.

§

2 – SULL’ERRONEITA’, CONTRADDITTORIETA’ E ILLEGITTIMITA’ DEL METODO DI RICOSTRUZIONE DEL REDDITO ADOPERATO.

Quanto ai criteri in concreto adoperati dall’Amministrazione Finanziaria al fine di ricalcolare i prezzi di vendita e i conseguenti presunti maggiori ricavi, non è dato comprendere perché l’Amministrazione Finanziaria, piuttosto che procedere alla determinazione delle percentuali di ricarico mediante un metodo comparatistico, che prenda a riferimento le percentuali di ricarico applicate dalla XXX S.p.A. e quelle applicate dai competitors di questa, abbia proceduto alla rideterminazione dei ricavi attraverso una forzatura delle mere “raccomandazioni” fornite dalle case madri in riferimento alle percentuali di sconto praticabili, che non vincolano certamente la Società (cfr. a conferma: doc. XX allegato in primo grado) e non tengono conto delle concrete operazioni e strategie commerciali che, di volta in volta, si mira ad attuare.

Invero, l’Amministrazione Finanziaria, piuttosto che, come detto, procedere secondo un esame comparatistico, pone alla base dell’accertamento induttivo, un ragionamento – tutt’altro che lineare – che mostra il fianco a numerose censure, in più di un’occasione evidenziate dal Contribuente. In particolare, il ragionamento dei verificatori presenta fortissime criticità tanto sotto il profilo esterno, considerato che, come si vedrà diffusamente nel prosieguo, rende proprio un criterio di calcolo “anomalo”, del tutto difforme da quello – comparatistico – di regola adoperato in casi analoghi, quanto sotto il profilo interno, posto che il ragionamento dei verificatori parte da premesse che vengono, in un secondo momento, sconfessate dalle stesse risultanze conclusive del ragionamento stesso (sul punto: cfr. nota X), criticità che ovviamente ne minano fortemente l’attendibilità e verosimiglianza.

Il meccanismo di ricalcolo seguito dall’Ufficio si presenta ancora più irragionevole, contraddittorio e illogico così come contrario alle massime di esperienza, se sol si consideri come, in casi analoghi, si proceda sempre – ciò è sufficientemente verificabile nell’analisi della numerosa giurisprudenza formatasi in simili ipotesi (ex pluribus Cass. n. 27453/2008) – ad un’analisi comparatistica dei prezzi praticati dalla Società verificata e quelli praticati dai concorrenti di questa.

Orbene, si noti che l’utilizzo di un tale metodo comparatistico avrebbe evidenziato la totale destituzione di fondamento delle tesi erariali.

In punto di diritto, tale irragionevolezza dei criteri di calcolo si traduce nella contraddittorietà della motivazione dell’atto di accertamento e della sentenza che li faccia propri, palesandosi, pertanto, censurabile finanche in Cassazione.

D’altronde, l’appellante ha provato (docc. nn. XX, XX, XX e XX depositati in primo grado) che le percentuali di ricarico applicate sono perfettamente in linea con quelle applicate dai principali soggetti economici operanti quali competitors della XXX S.p.A.

ùSi è, infatti, dimostrato (doc. nn. XX e XX depositati in primo grado) che l’analisi dei dati di bilancio di terzi concessionari di orologi operanti nel settore merceologico di cui trattasi evidenziano ricavi operativi e un ricarico medio del tutto assimilabile a quelli dichiarati da XXX S.p.A.

In particolare, la media di ricavi operativi di XXX è totalmente in linea con quelle dei propri competitors XY S.r.l. e XZ S.r.l., operatori economici del tutto analoghi alla XXX S.p.A. per fatturato ed oggetto sociale.

Nello specifico, sebbene l’Ufficio abbia ritenuto di elevare la percentuale media di ricarico di XXX, per il XXX, dal 10,30% al 22,16%, per il XXX, dal 10,63% al 24,03% e, per il XXX, dal 10,84% al 23,60%, si è dimostrato che le ricariche indicate dall’Ufficio non rispondono assolutamente a quelle applicate dai concorrenti della XXX S.p.A.; infatti, i sopra menzionati operatori evidenziano ricariche medie, quanto a XZ S.r.l. del 16,19% e quanto a XY S.r.l. dell’8,88% che confrontate con quella della XXX S.p.A. – del 10,59% – ne dimostrano la chiara corrispondenza alle ricariche medie applicate nel mercato di riferimento.

Nello specifico dell’analisi comparatistica è possibile rilevare:

a) quanto al concorrente XY S.r.l.

lo stesso evidenzia i seguenti ricavi operativi

(OMISSIS)

Orbene, si vede chiaramente che la media di ricavi operativi di tale operatore economico, nel periodo XXX pari a 10,76%, è addirittura inferiore a quella evidenziata da XXX S.p.A. del 12,62%;

- inoltre, emerge che tale operatore economico applica una ricarica media pari a:

(OMISSIS)

e, dunque, una ricarica media, negli anni presi in considerazione (XXX), dell’8,88%, decisamente inferiore a quella praticata dalla XXX S.p.A.

b) quanto al concorrente XZ S.r.l.

- lo stesso evidenzia i seguenti ricavi operativi

(OMISSIS)

Orbene, si vede chiaramente che la media di ricavi operativi di tale soggetto, nel periodo XXX-XXX pari al 16,71%, è di poco superiore a quella evidenziata dalla XXX S.p.A. del 12,62% e comunque decisamente inferiore alla ricarica applicata dall’Agenzia delle Entrate per ricalcolare i ricavi della XXX S.p.A.

- inoltre, emerge che tale operatore economico applica, negli anni presi in considerazione, una ricarica pari a:

(OMISSIS)

e, dunque, una ricarica media, negli anni oggetto di verifica (XXX-XXX), pari al 16,19%, e quindi assolutamente inferiore a quella indicata dall’Ufficio, ossia del 22,15% nel XXX, 24,03% nel XXX, 23,60% nel XXX e 20,59% nel XXX.

Si sottolinea, vieppiù, che la scelta dei competitors è tutt’altro che arbitraria, prendendo a punto di riferimento, del ragionamento comparatistico, dei competitors che:

a) operano nello stesso identico settore merceologico della XXX S.p.A.;

b) operano all’interno di un analogo mercato di riferimento rispetto alla XXX S.p.A.;

c) presentano un fatturato del tutto assimilabile, anche quanto a volumi, a quello della XXX S.p.A.

Ad ulteriore riscontro si è, altresì, dimostrato (doc. n. XX depositato in primo grado), che la media di ricavi operativi e il ricarico medio praticato negli anni XXX e XXX (ndr. anni successivi), si mostra in linea con quelli degli anni oggetto di indagine; viene, dunque, meno l’inferenza, proposta dai verificatori prima e dalla sentenza poi, secondo cui è stata possibile l’applicazione di tali percentuali - ritenute troppo basse - in virtù del flusso economico generato dalle - presunte e mai verificate - cessioni in nero nei confronti di XXX, essendo, negli anni XXX e XXX, venuto meno ogni rapporto della Società con tale soggetto.

***

Ancora, per quanto attiene al metodo di ricalcolo dei redditi imponibili, i Giudici di prime cure, partono da un presupposto di fatto chiaramente erroneo.

Si legge, infatti, in sentenza che l’Ufficio avrebbe riscontrato “percentuali di ricarico applicate nella vendita di orologi non conformi alla media del settore, con conseguente rideterminazione dei ricavi ritratti dalla vendita di orologi”.

Nulla di più lontano dalla realtà.

Invero, il contribuente è l’unico che propone un ragionamento comparatistico, confrontando la ricarica applicata dalla XXX S.p.A. con quella applicata da entità economiche di analoga dimensione (XY S.r.l. e XZ S.r.l.), soggetti economici con analogo fatturato e operanti nel medesimo mercato di riferimento.

Contrariamente, l’Ufficio propone un ragionamento ben diverso; asside, infatti, le proprie deduzioni sul margine che i fornitori raccomandano di applicare, ed a tale margine applica degli sconti che riconosce, secondo non ben determinati criteri, mediamente praticabile ai clienti.

La sentenza risulta, pertanto, fondata su rilievi erronei, non coincidenti con le risultanze fattuali e probatorie, emerse nel primo grado di giudizio.

***

Sulla base di tutto quanto sopra esposto, appare lampante l’erroneità del provvedimento dei giudici di prime cure, di cui si chiede, per l’effetto, l’integrale riforma.

§

3 – SULLA SUSSISTENZA DELLA PROVA CONTRARIA DA PARTE DEL CONTRIBUENTE.

Infine, si rileva che il contribuente ha proceduto, comunque, a dare prova dell’erroneità, dell’inverosimiglianza e dell’infondatezza del ragionamento presuntivo e degli assunti Erariali e di non aver mai tenuto un comportamento antieconomico, nello specifico fornendo la prova:

a)      che gli sconti concessi, anche nei casi limite, non hanno mai eroso i margini di profitto e sono sempre rientrati all’interno di una precisa politica commerciale e imprenditoriale, la quale ha dimostrato di avere, malgrado la forte crisi economica, effetti positivi sull’attività economica propria della XXX S.p.A.; sul punto quanto alle contestazioni principali si specifica, altresì, che:

b)      in relazione alle cessioni effettuate a favore della ZZZ lo sconto è del tutto giustificato in considerazione del volume di affari derivante solamente da tale cliente ed ammontante a quasi 13 milioni di euro tra il XXX e il XXX ed equivalente al 35% del volume d'affari complessivo della XXX S.p.A. È, infatti, più che logico che la XXX S.p.A. riservi un trattamento di particolare favore, in termini di sconti applicati, ad un cliente che, da solo, rappresenta più di 1/3 del volume di affari della Società. Inoltre, operando la stessa ZZZ come grossista è evidente che le cessioni avvenivano ad un prezzo che lasciasse, alla ZZZ, spazio per operare, a sua volta, una congrua ricarica in vista della successiva vendita al dettaglio;

c)      in riferimento alle cessioni effettuate nei confronti della WWW, a parere dell’Ufficio, lo sconto praticato si manifesterebbe eccessivo stante la circostanza che la Società avrebbe sopportato, altresì, le spese di trasporto e di assicurazione; orbene, è stata dimostrata la pretestuosità di una simile contestazione posto che, su cessioni che nel 2007 ammontano ad € 118.650,00, tali spese di trasporto e assicurazione equivalgono a poche centinaia di euro l'anno né l’Ufficio ha dimostrato, in alcun modo, che la Società ha sostenuto costi ulteriori che renderebbero antieconomiche le cessioni medesime;

d)      quanto alla cessione dell’orologio AAA, asseritamente venduto sottoprezzo, la Società ha dimostrato che trattavasi di orologio sottoposto a riparazioni di rilevante entità (le quali, a detta della stessa casa costruttrice, hanno comportato un forte deprezzamento) che, a due anni dall’acquisto, per caratteristiche intrinseche allo stesso (trattavasi di un orologio da uomo con cassa e bracciale in oro rosa) nonché per le riparazioni subite, non si è riusciti a posizionare sul mercato, fino a che, solo nel luglio XXX, si è ceduto lo stesso per la cifra di € 155.000,00, prezzo che, seppure inferiore al prezzo di acquisto (avvenuto, si noti, prima del manifestarsi dei difetti che diedero luogo alle riparazioni), risultava sicuramente vantaggioso alla luce della forti difficoltà riscontrate nella vendita di tale prodotto;

e)      che il prezzo praticato dalla XXX S.p.A. (ed il margine di profitto dalla stessa conseguito) è perfettamente in linea con quello di mercato, praticato dai concorrenti della Società (cfr. docc. nn. XX, XX, XX e XX depositati nel giudizio di primo grado; sul punto cfr. anche quanto ampiamente esposto al par. 2);

f)       che il prezzo praticato dalla XXX S.p.A. è, a maggior ragione, giustificato dalla circostanza che la stessa svolge, in misura rilevante, attività di vendita all’ingrosso (a conferma di tale circostanza: doc. XX e doc. XX depositati nel giudizio di primo grado) che implica l’applicazione di un prezzo di vendita inferiore rispetto a quello praticabile nel caso di vendita al dettaglio;

g)      che la XXX S.p.A. beneficiando, anche in ragione della quantità di acquisti effettuati, di particolari bonus e canvass riconosciuti in suo favore dalle case produttrici (equivalenti, nei periodi d’imposta verificati, a più di 1.150.000,00 euro) poteva permettersi di mantenere dei prezzi particolarmente competitivi e ciò rappresenta un’ottima politica commerciale, posto che un prezzo maggiormente concorrenziale si traduce in un numero maggiore di vendite, che a loro volta rendono possibile un numero maggiore di acquisti, che si traducono nel conseguimento dei bonus e canvass di cui si è detto;

h)      che la Società ha sempre evidenziato un margine di utile significativo, che testimonia, tra l’altro, anche in considerazione della fortissima crisi economica del settore, la quale, negli anni considerati, ha condotto le imprese, anche di grandi dimensioni, a registrare forti perdite, l’oculatezza delle scelte commerciali della XXX S.p.A., in questa sede ingiustamente penalizzate;

i)       ha dimostrato, per quanto attiene alla fittizietà delle fatture emesse a fronte di cessioni a favore della XXX S.r.l., che il rilievo è del tutto inconferente avendo la stessa correttamente contabilizzato dette fatture ed assolto l'IVA (come espressamente riconosciuto dai verificatori: avendo la società XXX S.p.a. contabilizzato dette fatture di vendita tra i ricavi di esercizio ed inserite tra le operazioni attive delle dichiarazioni l'IVA relativa sia stata comunque assolta”) e, semmai, cela la consapevolezza, da parte dell’Ufficio, dell’inesistenza di sufficienti reali elementi sulla base dei quali procedere all’accertamento. Per mero tuziorismo, comunque, la Società ha dimostrato (doc. n. XX depositato nel giudizio di primo grado), altresì, che seppure si trattasse di operazioni soggettivamente fittizie (perché gli acquisti non sarebbero stati effettuati dalla XXX S.r.l. ma dall’amministratore di questa XXX), il contribuente non avrebbe avuto modo di verificare tale difformità soggettiva, stante la circostanza che il XXX sottoscriveva gli assegni di pagamento in conseguenza di tutte le cessioni effettuate a favore della XXX S.r.l.

l)       ha dimostrato che gli orologi oggetto delle presunte cessioni c.d. in nero al Signor XXX o sono stati ceduti ad altri soggetti, o non sono stati affatto ceduti (l’Ufficio al riguardo, non si è curato, come emerge pacificamente dagli atti e ammesso dallo stesso, neanche di verificare le risultanze di magazzino della Società che dimostrano con solare evidenza l’infondatezza delle tesi erariali). In particolare, sul punto è stato provato:

- che gli Organi Accertatori non hanno verificato le scritture di magazzino né identificato, in concreto, quali orologi siano stati ceduti a XXX;

- che non sussiste alcuna prova che siano stati corrisposte le somme relative a tali presunti cessioni;

- che gran parte delle presunte cessioni c.d. in nero nei confronti di XXX sarebbero, comunque, state sottoposte ad imposizione in quanto corrispondenti a cessioni effettuate nei confronti della XXX S.r.l. risultanti dalle scritture contabili, per le quali ogni imposta dovuta è stata assolta.

In definitiva, la sussistenza di tali cessioni c.d. in nero è frutto di un ragionamento presuntivo a catena – scevro di riscontri – che parte dal ritrovamento di alcuni fogli extracontabili – peraltro acquisiti secondo modalità dubbie e la cui utilizzabilità processuale si contesta espressamente – la cui inattendibilità è manifesta stanti le continue incongruenze presenti al loro interno e la cui valenza, per l’effetto, è pressoché nulla. Infine, si noti che la Società ha dato prova, altresì, che – seppure si volesse accedere alla tesi erariale – tali cessioni altro non sarebbero che quelle effettuate a favore della XXX S.r.l., già sottoposte a imposizione, le quali non potrebbero essere nuovamente oggetto di tassazione, pena la violazione del divieto di doppia imposizione e del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.

m)     ha dimostrato la regolarità formale delle cessioni all’esportazione (docc. nn. XX e XX depositati nel procedimento di primo grado, in atti).

In definitiva, gli assunti erariali, oltre ad essere assisi su una metodologia di accertamento contra legem, sono stati ampiamente sconfessati dal contribuente, e ciò malgrado la Società contribuente sia stata gravata di una c.d. prova diabolica in spregio al diritto di difesa.

§

4 - OMESSA, INSUFFICIENTE E CONTRADDITTORIA MOTIVAZIONE. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 132 N. 4 C.P.C. NONCHE’ DELL’ART. 36, SECONDO COMMA, N. 4, DEL D.LGS. N. 546/1992.

La sentenza si mostra, inoltre, gravemente censurabile per omessa motivazione nella parte in cui – pur rideterminando il reddito imponibile di XXX S.p.A. – omette qualsiasi indicazione riguardo ai criteri di calcolo dalla stessa accolti al fine di procedere a tale nuova rideterminazione del reddito della Società; di tal guisa, viene limpidamente confermata la circostanza che i Giudici di primo grado si sono serviti di un meccanismo di calcolo puramente forfetario, non assiso sulla verifica della reale ed effettiva capacità contributiva di XXX S.p.A., e di conseguenza completamente slegato dai principi informatori del nostro ordinamento, primo fra tutti, quello cristallizzato all’interno dell’art. 53 Cost., e ciò non può che determinare un prelievo fiscale non corrispondente all’effettiva capacità contributiva dell’appellante.

Siffatto modus operandi si traduce in una diretta violazione dell’art. 36 D.lgs. n. 546/1992 – contenente un canone imposto in via generale dall’art. 132, n. 4 c.p.c. – il quale prevede, tra gli elementi essenziali della sentenza, l’esposizione dei motivi in fatto ed in diritto della decisione, che determina, sotto tale profilo, un inequivocabile difetto di motivazione della pronuncia.

La predetta statuizione chiaramente non consente di individuare i presupposti giuridici e le ragioni di fatto posti a fondamento della decisione dell’organo giudicante, né di “ricostruire” il ragionamento svolto da quest’ultimo. Pertanto, in parte qua, la sentenza dei giudici di prima istanza, risulta erronea, giacché non congruamente motivata.

L’iter logico-giuridico seguito dai Giudici, in altri termini, nella parte in cui ricostruisce, in sentenza, il reddito imponibile del contribuente, si palesa illegittimo, perché non evidenzia – così come espressamente richiesto dal secondo comma dell’art. 36 D.lgs. n. 546/1992 – i motivi in fatto ed in diritto alla base della diversa ricostruzione del reddito, ponendo, tra l’altro, il contribuente nell’impossibilità di comprendere la ratio effettiva della sentenza e, quindi, di valutare la fondatezza della medesima, nonché l’opportunità di proporre articolata impugnazione, da cui consegue, altresì, la violazione del diritto di difesa costituzionalmente garantito dall’art. 24 della Cost.

In punto di diritto, con particolare riferimento al difetto di motivazione, la Suprema Corte ha più volte ribadito che le censure – proponibili in sede di gravame in base al codice di rito – sono dirette a provocare un controllo di legittimità sul modo e sui mezzi adoperati dal Giudice nella motivazione della sua decisione, al fine di accertare se questa sia coerente nell’esposizione delle ragioni e delle fonti del convincimento (ex pluribus, Cass.  n. 2355/1982).

Ciò posto, ed intesa dunque la motivazione come “l’esposizione di un ragionamento giustificativo con il quale il giudice mostra che la decisione si fonda su basi razionali idonee a renderla accettabile” (così ancora TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, Milano, 1992, p. 408 ss.) appare evidente l’illegittimità della sentenza impugnata, vieppiù avvalorata dalla manifesta <<decisività>> della questione in relazione alla quale si è sostanzialmente omesso di motivare.

La sentenza, andrà, dunque, integralmente riformata sotto questo aspetto.

§

5 – ULTERIORI PROFILI DI INFONDATEZZA DELLE CONTRODEDUZIONI DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE. (OMISSIS)

§

6 – CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE.

In definitiva, salvo tutto quanto già rilevato in precedenza dal contribuente, anche in sede di appello nonché all’interno della presente memoria, si ritiene si sia evidenziato e dimostrato come:

1) la metodologia di accertamento utilizzata nel caso di specie sia irrituale e violi l’ art. 39 D.P.R. n. 600/1973, il divieto di presunzioni di secondo grado e gli artt. 53 e 24 Cost.

2) l’Ufficio non abbia, in alcun modo, assolto il proprio onere probatorio;

3) il metodo di ricostruzione del reddito utilizzato sia erroneo, contraddittorio e contrario alle massime di esperienza ed a razionalità e si risolva in una ricostruzione del reddito imponibile, sotto molteplici profili, inattendibile;

4) il contribuente abbia ampiamente fornito dimostrazione della correttezza del proprio operato e dell’infondatezza degli accertamenti di cui trattasi, in ogni caso illegittimi ed invalidi, malgrado lo stesso si trovasse gravato di una prova c.d. diabolica in ragione dell’utilizzo di una metodologia di accertamento contra legem;

5) salvo quanto retro, la sentenza appaia, anche sotto un profilo meramente motivazionale, gravemente viziata.

***

Alla luce di tutto quanto esposto dal contribuente nei propri atti processuali si insiste affinché, in riforma dell’impugnata sentenza, gli avvisi di cui trattasi siano dichiarati nulli, inefficaci, illegittimi, infondati e/o comunque invalidi”.

 

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