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Se la pretesa dell’Agenzia è stata annullata dalla Commissione Tributaria, l’Agenzia non può sospendere altro rimborso affermando che la decisione non è definitiva. Giudicato non necessario. Sospensione illegittima. Respinto il ricorso del Fisco

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Estratto: “qualora la decisione abbia annullato la pretesa, ancorchè non definitivamente perché non passata in giudicato, ugualmente di quella pretesa non può più tenersene conto ai fini della misura cautelare già adottata dalla Agenzia, caducandosi dunque le ragioni per il permanere della sospensione”.

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Corte di Cassazione, Sez. 5

Ordinanza n. 2893 del 31 gennaio 2019

Rilevato che:

L'Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 40/13/2012, depositata il 9.07.2012 dalla Commissione Tributaria Regionale dell'Emilia Romagna; ha riferito che a seguito di istanza di rimborso dell'eccedenza del credito IVA relativo all'anno 2008, dell'importo di € 180.000,00, presentata dalla A. s.r.I., l'Ufficio ne disponeva la sospensione ex art. 23 del d.lgs. n. 472 del 1997. Il provvedimento era motivato dalla presenza di due contenziosi (uno allo stato non più rilevante). La società adiva la Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia, che accoglieva il ricorso con sentenza n. 170/01/2009. Avverso la decisione l'Ufficio proponeva appello dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale dell'Emilia Romagna, che lo rigettava con la sentenza ora impugnata. In sintesi il giudice regionale sosteneva che al contribuente non poteva essere imposto l'obbligo di prestare fideiussione anche per la revoca della sospensione, come preteso dalla Amministrazione, atteso che già l'art. 38 bis del d.P.R. n. 633 del 1972 prevedeva la costituzione di una fideiussione al momento della erogazione del rimborso. L'Agenzia censura con un unico motivo la pronuncia, dolendosi della violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in particolare dell'art. 23 del d.lgs. n. 472 del 1997, in relazione all'art. 360 co. 1, n. 3 c.p.c., per non aver tenuto conto che la società non aveva mai prestato alcuna garanzia fideiussoria e che il distinto contenzioso per debiti tributari era ancora pendente perché la sentenza della CTR, pur avendo accolto le prospettazioni del contribuente, non era ancora definitiva. Ha pertanto chiesto la cassazione della sentenza, con decisione anche nel merito. Si è costituita la società, contestando il ricorso avverso, del quale ha chiesto l'inammissibilità e nel merito il rigetto. Ha inoltre proposto ricorso incidentale condizionato, formulando due motivi: con il primo per nullità della sentenza, in relazione all'art. 360 co. 1 n. 4 c.p.c., per non aver rilevato il passaggio in giudicato della sentenza emessa dal giudice di primo grado, nella parte in cui aveva motivato l'accoglimento del ricorso anche sull'assunto che la sospensione ex art. 23 cit. potesse applicarsi nei limiti della pretesa fiscale riconosciuta dal giudice, ragione non impugnata dalla Amministrazione dinanzi alla Commissione Regionale. Con il secondo per falsa applicazione dell'art. 23 cit e dell'art. 68, co. 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, per non aver riconosciuto l'illegittimità della sospensione del rimborso iva per violazione dei limiti dei controcrediti dell'ufficio, come già accertati nella sentenza emessa nel distinto contenzioso instaurato tra le parti, ed in violazione anche dei principi imposti dall'art. 68 cit. È stata depositata memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.

Considerato che:

deve preliminarmente rigettarsi l'eccepita tardività del ricorso della Agenzia, che la società assume proposto oltre il termine lungo previsto dall'art. 327 c.p.c. E' qui sufficiente rammentare che il termine lungo semestrale è applicabile a partire dal 4 luglio 2012 e per i giudizi introdotti dopo quella data, fattispecie cui è estraneo il presente, promosso nel maggio 2009. Nel merito il motivo formulato dalla Agenzia è infondato. La sentenza impugnata ha stigmatizzato le ragioni della sospensione del rimborso ai sensi dell'art. 23 del d.lgs. n. 472 del 1997 perché ha reputato non “ipotizzabile che al contribuente possa essere imposto l'obbligo di prestare fideiussione anche per ottenere l'annullamento della sospensione del rimborso, tanto più che sarà comunque tenuto a depositare fideiussione ex art. 38 bis del DPR n. 633/72, contestualmente all'effettiva erogazione del rimborso”. A fronte di questa motivazione l'Amministrazione evidenzia che: a) la società non ha mai prestato alcuna garanzia fideiussoria ex art. 38 bis cit.; b) l'atto impositivo in forza del quale l'Agenzia reclama controcrediti nei confronti della società, che giustificano la sospensione, sono stati annullati nei giudizi di primo e di secondo grado dinanzi alle commissioni tributarie, ma la decisione non è ancora definitiva, pendendo ricorso per cassazione. In altri termini si sostiene la presenza di carichi pendenti che giustificano il provvedimento di sospensione del rimborso iva, a tal fine richiamando il meccanismo del "fermo amministrativo" disciplinato dall'art. 69 del R.D. n. 2440/1923. Il ragionamento della Agenzia non è corretto e pertanto il ricorso non può trovare accoglimento, dovendo tuttavia correggersi la motivazione della sentenza ai sensi dell'art. 384, co. 4 c.p.c. L'Amministrazione ritiene che ogni qual volta al credito del contribuente, di cui si richiede il rimborso, si contrapponga un controcredito della Agenzia, questa può sospendere il rimborso in attesa che il contenzioso instaurato sulle proprie pretese fiscali sia definitivamente regolamentato con decisione passata in giudicato. Questo ragionamento viene applicato anche nell'ipotesi in cui il contribuente richieda il rimborso Iva, la cui disciplina trova invero collocazione negli art. 38 bis e segg. del d.P.R. n. 633 del 1972. L'art. 38 bis in particolare contiene una dettagliata disciplina quando la richiesta di rimborso sia di ammontare superiore ai 30.000,00 € e, per le situazioni soggettive elencate nel comma 4, prevede il rilascio di una garanzia fideiussoria o resa con altre modalità previste nel comma 5. Appare subito evidente che la suddetta norma, regolamentante in modo specifico i rimborsi in materia di Iva, non ne preveda la sospensione. Ebbene l'Agenzia ha inteso fare ricorso alla fattispecie contemplata nell'art. 23 del d.lgs. n. 472 del 1997 per opporre alla società la sospensione del rimborso richiesto. La prima questione che allora deve porsi e se sia possibile, in materia di Iva, ricorrere ad una misura cautelare, che nella formulazione vigente all'epoca in cui la controversia tra le parti è insorta, prevedeva l'esercizio della sospensione solo a fronte di contestazioni o irrogazioni di sanzioni. Nel caso di specie è infatti incontestato che il carico pendente, ossia il presunto credito della Amministrazione, trovasse fonte in un avviso di accertamento, contenente anche le sanzioni, ma non solo. Di per sé ciò involge non poche perplessità sulla applicabilità, in materia di Iva - già destinataria di una dettagliata disciplina a garanzia delle richieste di rimborso - di un rimedio cautelare predisposto normativamente a garanzia dello Stato nella riscossione delle sanzioni. La circostanza poi che la stessa norma sia stata successivamente modificata, sino all'attuale formulazione, in cui è stata aggiunta la previsione della notifica di provvedimento “con il quale vengono accertati maggiori tributi, ancorché non definitivi”, lungi dal costituire un riscontro delle pretese dell'Ufficio, fa sorgere dubbi sulla sua applicabilità all'epoca dei fatti per cui vi è giudizio, tenendo conto della incidenza su diritti del contribuente, e dunque del riferimento a materia non oggetto di interpretazioni analogiche. Peraltro, ancorché possa prospettarsi che le enunciate perplessità siano superate dalla considerazione che ai maggiori tributi accertati si accompagna ordinariamente la comminazione di sanzioni, è altrettanto vero che l'art. 23 cit., cui l'Amministrazione ha fatto ricorso, è norma generale, mentre ai fini della regolamentazione dei rimborsi Iva il Legislatore ha inteso dedicare una specifica normativa, ossia dell'art. 38 bis cit., che dunque è prevalente nella disciplina di quella materia. La difesa della Amministrazione cerca di recuperare indirettamente l'art. 69 del r.d. n. 2440 del 1923, il quale prevede espressamente il fermo amministrativo quale potere di autotutela della P.A., di carattere generale, che sospende il pagamento a salvaguardia dell'eventuale compensazione legale dell'altrui credito con quello preteso dalla amministrazione medesima, ancorché ancora illiquido. L'applicabilità di tale meccanismo cautelare alla materia tributaria è riconosciuto da un orientamento di questa Corte (cfr. 25893/2017; 7320/2014), ma resta il dato oggettivo che nel caso di specie l'Agenzia è intervenuta ai sensi dell'art. 23 cit. non dell'art. 69, fattispecie niente affatto sovrapponibile, sicchè quello che resta da verificare è in che termini ed entro quali limiti l'istituto della sospensione utilizzato dalla ricorrente potesse trovare applicazione. Ebbene anche qualora volesse ipotizzarsene comunque la sua applicazione, il tenore letterale dell'art. 23 è inequivoco laddove, nel testo vigente ratione temporis (ed ancor più confermato nella attuale formulazione) affermava che «la sospensione opera nei limiti della somma risultante dall'atto o dalla decisione della commissione tributaria ovvero dalla decisione di altro organo.». L'interpretazione letterale dunque porta a ritenere, con sufficiente chiarezza, che la sospensione del rimborso va ricondotta nei limiti della pretesa fiscale emergente: 1) dall'atto impositivo a partire dal momento della sua emissione; 2) dalla decisione del giudice tributario nell'ipotesi di contenzioso. Questo significa che qualora la decisione abbia annullato la pretesa, ancorchè non definitivamente perché non passata in giudicato, ugualmente di quella pretesa non può più tenersene conto ai fini della misura cautelare già adottata dalla Agenzia, caducandosi dunque le ragioni per il permanere della sospensione. Quello allora che in ogni caso emerge, qualora possibile il ricorso alla misura prevista dall'art. 23 cit., è che la sospensione non potrebbe comunque essere mantenuta sino alla definitiva esclusione del credito erariale (per sentenza passata in giudicato) o al suo definitivo riconoscimento (con possibilità di compensazione dei crediti). Proprio il tenore letterale della norma esclude infatti che il carico pendente, rappresentato dalla pretesa fiscale contestata, debba protrarsi sino alla definitività della decisione. Non può dunque reputarsi ininfluente l'annullamento della pretesa fiscale da parte del giudice, con conseguente sgravio, ancorchè la decisione non sia definitiva, e ciò in forza del dato letterale della norma, che già nella formulazione vigente ratione temporis fissava il limite di operatività della sospensione nella «somma risultante dall'atto o dalla decisione della commissione tributaria...». L'espresso e circoscritto riferimento alla decisione del giudice delle fasi di merito fa dunque comprendere come non sia necessaria la definitività della decisione per segnare il limite di efficacia del titolo precedentemente posto a base della misura cautelare. Tale definitività aveva (ed ha) invece valore solo quale presupposto per la pronuncia, da parte dell'Ufficio, della compensazione del debito (comma 2).

Nel caso di specie la pretesa impositiva dell'Ufficio risultava disattesa sia in primo che in secondo grado. La ricostruzione dell'alveo applicativo della misura cautelare trova peraltro coerente riscontro in altre aree dei rapporti fiscali, come ricostruite dalla giurisprudenza di questa Corte. Ad esempio in tema di iscrizione nei ruoli straordinari dell'intero importo delle imposte, degli interessi e delle sanzioni, che risultino dall'avviso di accertamento non definitivo, prevista in caso di fondato pericolo per la riscossione dagli artt. 11 e 15 bis del d.P.R. n. 602 del 1973. Per questa fattispecie, che costituisce una misura cautelare posta a garanzia del credito erariale, e la cui legittimità dipende pur sempre da quella dell'atto impositivo presupposto, la Corte ha affermato che, costituendo il predetto atto il titolo fondante, qualora intervenga una sentenza del giudice tributario, anche non passata in giudicato, che annulli in tutto o in parte il titolo, l'ente impositore, così come il giudice dinanzi al quale esso sia stato impugnato (eventualmente anche la relativa cartella di pagamento), ha l'obbligo di agire in conformità della statuizione giudiziale, sia ove l'iscrizione non sia stata ancora effettuata, sia, se già effettuata, adottando i conseguenziali provvedimenti di sgravio, o eventualmente di rimborso dell'eccedenza versata (Sez. U, sent. n. 758 del 2017). D'altronde, con uno sguardo al sistema euro-unitario ed alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, si è costantemente ribadito l'importanza del principio di neutralità dell'imposta (CGUE, sent. 11.04.2013, in causa C-138/12), affermando anche che le misure nazionali di natura conservativa incidenti sulla restituzione dell'eccedenza dell'Iva, se non sono a priori in contrasto con l'ordinamento dell'Unione quando tese ad assicurare interessi ugualmente degni di tutela, quali quelli erariali in riferimento ai crediti dello Stato, devono comunque rispondere al principio di proporzionalità, con minor pregiudizio possibile ai principi cui sottende la normativa europea. Ciò si traduce nell'escludere che tali misure mettano sistematicamente in discussione il diritto alla deduzione dell'Iva, principio fondamentale del sistema comune di tale imposta (cfr. CGUE, sent. 18.12.1997 in cause C-286/94, C-340/95, C-401/95, C47/96; sent. 12.05.2011, in causa C-107/10). In conclusione, qualunque sia il punto di osservazione per l'analisi della questione, e qualunque ampiezza voglia darsi alla forza applicativa dell'art. 23 del d.lgs. n. 472 del 1997, nel caso di specie mancavano del tutto i presupposti per disporre la sospensione del rimborso, o per pretendere per la sua revoca ulteriori garanzie, diverse da quelle già previste dall'art. 38 bis del d.P.R. n. 633 del 1972.

Il ricorso va dunque rigettato.

Il rigetto del ricorso principale assorbe il ricorso incidentale condizionato spiegato dalla contribuente.

Considerato che

Al rigetto del ricorso segue la soccombenza della Agenzia delle Entrate nelle spese del giudizio, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale, assorbito quello incidentale condizionato. Condanna la ricorrente alla rifusione in favore della società delle spese processuali, che liquida in € 5.000,00 per competenze ed € 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori come per legge. Così deciso in Roma, il giorno 28 novembre 2018

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