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Verifica fiscale agli architetti. Come ci si può difendere. 3 esempi di casi in cui il ricorso degli architetti è stato accolto dai giudici.

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La sfera patrimoniale degli architetti, incaricati per lo svolgimento di lavori afferenti l’edilizia pubblica e privata, l’interior design e non solo, è spesso sottoposta a controlli serrati da parte del Fisco.

Ed infatti, questa categoria professionale, che ha risentito maggiormente della crisi che ha investito il settore dell’edilizia, non solo deve lottare per il pagamento dei compensi ma dall’altro lato è costantemente sotto accusa per accettare lavori sottopagati (che potrebbero porsi alla base di accuse di presunta evasione fiscale).

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Gli architetti vengono in alcuni casi tacciati di eseguire le proprie prestazioni professionali e di non fatturarle oppure di emettere fatture incongrue rispetto alle commesse ricevute.

Una nomea che certo delegittima il ruolo e la responsabilità di questa professione ora, più che mai, sotto il mirino dei controlli fiscali.

Un monito che è già stato lanciato e vede coinvolti non solo i professionisti dai compensi “contenuti” ma anche quei professionisti che dichiarano compensi molto alti controbilanciati da una quota di deduzione che abbassa la quota del reddito imponibile.

Ma i controlli riguardano anche e soprattutto gli studi professionali associati, quelli in cui sono coinvolti diverse figure professionali quali architetti, ingegneri e geometri.

Esercitare la professione insieme ad altri professionisti del settore edile è ormai la norma: vuoi perché il cliente preferisce un servizio “chiavi in mano”, e quindi essere supportato in tutto il suo percorso di costruzione ed arredo della casa, vuoi per questioni di economicità.

Condividere uno studio professionale, infatti, comporta un grande risparmio per i diversi tecnici impegnati nella costruzione di una casa ovvero ingegneri, architetti e geometri.

Eppure, anche questa prassi è vista con sospetto da parte dei verificatori in quanto è considerata un modo per confondere i proventi effettivi di ciascun professionista.

Così il Fisco controlla gli architetti

Il Fisco, in particolare, potrebbe muovere i controlli sulla base di una presunzione di base (un pregiudizio che riguarda diverse categorie professionali): gli architetti sottrarrebbero alla tassazione molti o una parte dei proventi del proprio lavoro.

L’attività di verifica è quindi mirata a constatare le irregolarità fiscali e contributive nonché ad accertare i maggiori compensi non dichiarati.

L’azione di controllo, prima delle ispezioni vere e proprie, parte dall’acquisizione della documentazione proveniente dall'archivio dell'Anagrafe Tributaria e nello specifico è tesa ad acquisire le informazioni sui locali dove il professionista svolge l’attività oppure l’ultima dichiarazione disponibile, ai fini dell’imposta sui redditi o ai fini Iva.

Vengono anche valutati i precedenti fiscali dell’architetto ovvero eventuali suoi coinvolgimenti in analoghe verifiche fiscali.

Grande attenzione, inoltre, desta il tenore di vita dell’architetto, quindi le auto possedute, le eventuali case di villeggiatura, il possesso di imbarcazioni ed ogni altro bene posseduto (un tempo i controlli guardavano ai beni di “lusso” mentre oggi i controlli riguardano spesso tutti i beni).

Il controllo più penetrante resta comunque l’accesso nei locali volta innanzitutto a ricostruire la reale situazione patrimoniale del professionista e quindi valutare dimensioni e caratteristiche dei locali di proprietà o in locazione, presenza di dipendenti, collaboratori, soci, praticanti, la presenza di beni strumentali, ecc. E’ durante questa fase che si acquisiscono le scritture contabili, i fascicoli relativi ai clienti ed alle commesse ricevute, le agende, gli appunti ed ogni altro documento riconducibile all’attività del tecnico.

Tutti questi controlli, in sostanza, sono tesi o a scovare eventuali prestazioni che non sono state fatturate o l’esercizio di professioni in forma societaria presupposto per il pagamento dell’IRAP, l’imposta regionale sulle attività produttive.

Vediamo, però, che molto spesso questi accertamenti conducono ad un nulla di fatto (per l’Agenzia) ed il contenzioso tributario si conclude a favore del professionista.

Corte di Cassazione, Sez. Civile , sentenza n. 23847 del 25 settembre 2019

Questo recente caso ha avuto origine dalle contestazioni mosse dall’Agenzia delle Entrate ad un architetto relativamente al mancato pagamento dell’Irap.

A parere degli accertatori il professionista si dotava di autonoma organizzazione, di un grande studio professionale superiore a 100 mq e di beni strumentali che andavano oltre le dotazioni minime per l’esercizio della sua attività. Inoltre era emerso che egli si avvaleva continuamente della collaborazioni di terzi.

In questo caso gli ermellini hanno dato ragione al contribuente, nel frattempo deceduto, precisando che l’autonoma organizzazione, fondativa dell’IRAP, non può essere dimostrata dai grandi ricavi, dai compensi e dalle spese, anche per beni strumentali.

Occorre, invece, che i giudici di merito valutino il concreto supporto fornito dai terzi collaboratori ed, in particolare, se esso è o meno di natura continuativa (non meramente esecutiva, e soprattutto se concreta un’autonoma organizzazione).

Corte di Cassazione, Sez. Civile , Ordinanza n. 4351 del 20 febbraio 2017.

Anche in questo caso l’architetto ha impugnato un avviso di accertamento emesso a suo carico (riguardante anche l’IRAP) a seguito di rettifica del reddito dichiarato attraverso l'applicazione degli studi di settore.

L’architetto si era difeso dimostrando di aver esercitato la professione senza ricorrere a particolari beni strumentali e senza avvalersi di dipendenti o collaboratori.

Anche in questo caso i giudici di Piazza Cavour hanno accolto il ricorso del contribuente ritenendo che l’IRAP possa essere applicata solo se l’architetto risulti il responsabile dell'organizzazione, impiega beni strumentali sproporzionati ed eccedenti il minimo indispensabile e si avvalga di collaboratori in maniera non occasionale.

Corte di Cassazione, V Sez. Civile, sentenza n. 16597 del 7 agosto 2015

Dello stesso tenore rispetto alle precedenti anche questa pronuncia che ha preso avvio dal ricorso di un architetto accusato di aver percepito maggiori compensi rispetto a quelli dichiarati.

L'accertamento è stato effettuato sulla base dello scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli presunti, basandosi sulla c.d. media di settore .

La Cassazione ha invece ridimensionato il valore delle medie di settore ritenendo che esse non hanno valore assoluto, storicamente provato ma rappresentano la sintesi di un’indagine statistica fondata sulla raccolta di dati disomogenei. Ecco allora che queste medie di settore non possono essere considerate alla stregua di una prova per presunzioni.

Ed ancora, i giudici hanno ritenuto che per determinare e quindi accertare un maggior reddito d'impresa non sia sufficiente una percentuale di ricarico diversa dalla media riscontrata nel medesimo settore commerciale, in quanto lo scostamento essere sproporzionato ovvero abnorme in relazione al caso concreto. Ed, in questo caso, non si era tenuto conto delle argomentazioni dell’architetto accusato che era membro della Commissione Edilizia del Comune ove non poteva quindi svolgere la sua attività nonché di essere titolare già di una pensione di anzianità.

Partendo da questo assunto la Cassazione ha accolto il ricorso dell’architetto.

 

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